XII. LA CONFRATERNITA

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
IV.1. La confraternita di san Ciro
Secondo quanto stabilito dallo statuto, la «confraternita promuove il bene spirituale dei confrati con l’istruzione religiosa, le pratiche di pietà e l’esercizio delle virtù cristiane». Oltre alle normali attività cui tutti i gruppi cattolici sono chiamati in ambito parrocchiale, la confraternita di san Ciro promuove una serie di iniziative tendenti alla conservazione e alla divulgazione del culto del santo patrono: la custodia dei beni donati dai devoti, la stampa di immagini sacre e opuscoli informativi da distribuire ai fedeli, l’organizzazione di due feste: quella invernale e quella estiva.
Il decreto del 1936 e il rapporto con il clero
La confraternita fu istituita il 22gennaio 1936, con decreto del cardinale Luigi Lavitrano, arcivescovo di Palermo, con lo scopo di promuovere il culto del santo e, di conseguenza, di curare i festeggiamenti. Ma questa prima associazione religiosa, non avendo avuto «lo sviluppo desiderato» (La Spina 1979: 12) venne presto soppressa dal parroco Natale Raineri. «I rapporti conflittuali tra le confraternite e il clero sono motivate da una diversa concezione della prassi religiosa e cerimoniale» (Giallombardo 1990: 95). Monsignor Raineri decise, infatti, di sciogliere la confraternita quando «lo spettacolo stipendioso e piccante dei cantanti ebbe la parte rilevante» nella festa (La Spina 1976: 50). L’Arcidiocesi di Palermo, che rilascia il nullaosta per le feste religiose e che vigila sul corretto svolgimento, delega ai parroci la responsabilità dei festeggiamenti. La stessa direttiva prevede che una quota del denaro raccolto durante la festa venga riservata ad opere di carità, da concordarsi tra la parrocchia e l’assemblea dei confrati. Questo rappresenta spesso un altro campo di conflittualità.
Il ripristino del 1976
Nel 1976 la confraternita venne ripristinata, per volontà del nuovo parroco, padre Francesco La Spina, che a tal proposito scriveva: «Amo sperare che la lungimiranza dei giovani intelligenti contribuisca ad educare il popolo con iniziative socialmente più costruttive» (ibidem).Nell’archivio della confraternita si conserva ancora la lettera con cui sedici giovani, in gran parte impegnati nell’associazionismo cattolico, chiedevano di iscriversi, per rifondare l’associazione religiosa. Alcuni di loro, da lì a poco, sarebbero diventati nuovi amministratori del paese.Prima dell’istituzione della congregazione religiosa, l’organizzazione dei festeggiamenti veniva curata da un comitato, che poteva avere la durata di uno o più anni.
I Deputati del 1747
Un documento del 1747 sulla festa di quell’anno è firmato da trentasei persone: otto religiosi e ventotto laici, indicati come Deputati della solennità di Marineo. Secondo la testimonianza degli anziani del luogo, quando un comitato nuovo si accingeva a subentrare al vecchio, ovviamente con la benedizione del clero, occorreva seguire un rituale ben preciso: «i nuovi componenti dovevano andare in processione, nel mese di agosto, posizionandosi accanto alla vara del santo». Questo gesto veniva letto dalla popolazione come «il segnale che già dal prossimo mese di gennaio ci sarebbe stato il cambio di guardia nell’organizzazione della festa». Il nuovo comitato si impegnava, in questo modo, sia ad organizzare la festa di gennaio che quella di agosto, quest’ultima molto più dispendiosa dal punto di vista economico.
L'Associazione san Ciro
Dopo il ripristino della confraternita, nel 1976, a causa di ulteriori tensioni col nuovo parroco, «ci fu un breve periodo, tra il 1983 e il 1985, in cui la festa venne nuovamente organizzata da un comitato laico, raccolto sotto la denominazione di Associazione san Ciro» e identificato in paese come il “comitato dei giovani”, per distinguerlo dal precedente.All’inizio degli anni Ottanta, anche per i “giovani” l’organizzazione dei festeggiamenti coincise con l’ingresso in politica con la costituzione di una lista civica. Erano gli anni del proporzionale.
Gennaio 1986
Nel mese di gennaio del 1986 la festa venne restituita alla confraternita, che nel frattempo aveva registrato nuove adesioni.
La confraternita di san Ciro è costituita col concorso di rappresentanze sociali diversificate. Alcuni confrati, comunque, esercitano un ruolo di guida avendo un seguito di consensi all’interno del gruppo. Di conseguenza, molte decisioni relative alla organizzazione della festa possono essere prese anche a livello politico. Una prova di ciò è stata l’organizzazione dell’ultima edizione della Dimostranza: inizialmente bocciata dalla maggioranza dell’assemblea della confraternita, è stata invece deliberata e organizzata in sede municipale, finanziata con fondi del Comune.
Uomini e donne
Quella di san Ciro è una confraternita mista, e non esiste, almeno sulla carta, alcuna differenziazione tra uomini e donne. È una delle prime confraternite di Marineo che ha aperto alle donne. Le consorelle, comunque, sono più restie a partecipare alla questua di fine festa (=la raccolta), ritenuto un lavoro più da uomini. Anche nella fase organizzativa avviene una suddivisione tra i lavori più adatti agli uomini e quelli più indicati per le donne. I primi, in genere, svolgono le attività più pesanti, come il trasporto dei banchi in chiesa o il montaggio dell’impalcatura in ferro dove viene collocata l’urna del santo nel periodo festivo. Le donne sistemano i fiori e i drappi. Oltre ai lavori pesanti, anche gli incarichi di maggiore responsabilità, come quello di superiore, vice superiore e cassiere, finora sono stati sempre ricoperti da uomini. Il dato sociologico che ne emerge è quello che, di fatto, alle donne viene assegnato un diverso ruolo, di secondo piano rispetto a quello degli uomini.
Lo statuto
Lo statuto in vigore, pubblicato il 26 novembre 1972 e aggiornato, nel ventesimo della pubblicazione, con decreto del cardinale Salvatore Pappalardo, il 22 novembre 1992, è praticamente identico a quello di molte altre confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo. Secondo le nuove disposizioni del Centro diocesano, tutte le confraternite, anche le più antiche dotate di un proprio statuto, sono tenute ad osservare le norme contenute nella nuova carta costitutiva. Una copia dello statuto, stampata nel 1992, è custodita nella sede della confraternita. Si tratta di un libretto delle dimensioni di 10x15 cm. con copertina verde e composto da 24 articoli. Nei primi capitoli vengono illustrati gli organi della confraternita (assemblea, consiglio e gestori) e le cariche sociali (superiore, congiunti, tesoriere, segretario, maestro dei novizi e prefetto di sagrestia). «Il superiore e i due congiunti sono eletti dall’assemblea fra i confrati che siano professi da almeno tre anni; durano in carica due anni e possono essere rieletti soltanto per un secondo biennio». Le altre cariche vengono assegnate dal superiore. Possono essere iscritti alla Confraternita «coloro che hanno compiuto il quindicesimo anno di età, siano di buoni costumi, osservanti dei doveri religiosi e sufficientemente istruiti nella dottrina cristiana», mentre «non possono far parte delle confraternite i divorziati e i conviventi». I ragazzi di età inferiore ai quindici anni possono essere ammessi solo come aspiranti. Pertanto, i confrati si distinguono in professi, novizi e aspiranti.

XI. LA PROCESSIONE DI S.CIRO

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.3. La processione
L’ordine delle confraternite e dei fedeli nella processione di san Ciro è rigidamente strutturato. La posizione di ciascuno rispetto alla vara è indice di gerarchie sociali riconosciute. Un ordine della società naturale dato da dinamiche generazionali e dall’altro a quelle socio-economiche e politiche.
«I riti, in particolare la struttura delle processioni, pur apparentemente prefiggendosi lo scopo di testimoniare la devozione di tutti i ceti e le classi di età, di fatto confermano e ne giustificano la stratificazione. Mediante le confraternite o privilegi particolari, le varie categorie professionali tendono nelle processioni a esibire, attraverso l’ostentazione dell’impegno devozionale, la loro forza economica» (Buttitta 1996: 264).
Ordine
Apre la processione il tamburo che, col suo suono, avvisa del passaggio del corteo.
Poi viene lo stendardo di san Ciro, che va sempre accompagnato da tre confratelli, di cui due con il cero acceso. In genere, è il superiore ad indicare chi deve accompagnare il gonfalone. A seguire, sfilano gli iscritti alla congregazione, disposti su due file.
All’interno della confraternita esiste una forma di riguardo dei giovani verso gli anziani. Questi ultimi trovano posto più vicini alla vara.
I confrati indossano un abitino di velluto rosso. Si tratta di un doppio pettorale con un ricamo dorato: la palma. Il colore rosso e la palma sono ritenuti simboli del martirio del santo. Inoltre, portano attorno al collo un medaglione d’argento raffigurante san Ciro. Segno distintivo del superiore è il colore oro del medaglione e la presenza di una crocetta.
Dopo la confraternita si sistema il clero: il parroco, alcuni sacerdoti marinesi ritornati in paese per l’occasione festiva, i frati francescani del convento di Marineo e le suore del collegio di Maria, accompagnati da un gruppetto di chierichetti.
Il superiore e altri confrati anziani si sistemano alle spalle del clero, in prossimità della vara del santo, con il compito di sorvegliare, dirigere i movimenti della macchina e le soste. Accanto alla macchina sono posizionati anche due carabinieri.
Subito dopo vi è la vara. Si tratta di un’impalcatura lignea del ’700, decorata sui lati da alcuni dipinti che narrano la storia di san Ciro. Inizialmente era portata a spalla dai deputati, ma nel dopoguerra si decise di trasportarla su una macchina donata da un devoto. La struttura è sistemata in modo tale da fare vedere solo le ruote e la parte anteriore dell’automobile: una Fiat degli anni Quaranta.
La vara
L’automobile è guidata da un meccanico incaricato dalla confraternita. Guidare la macchina è un privilegio molto ambito, tanto che in passato si sono verificate contese tra autisti proprio per il diritto a condurre il mezzo. Un privilegio recente, che sostituisce quello più antico di appuzzari sutta la vara, vale a dire di portare a spalla il santo (Pitré 1978b).
Il meccanico segue le indicazioni del superiore della confraternita. La macchina deve sostare solo nelle chiese, nelle cappelle e in alcuni «luoghi deputati, che corrispondono ai quartieri principali del paese». Eccezionalmente, il superiore della confraternita può concedere la sosta davanti l’abitazione di un infermo. Anche se, in passato, è successo che l’autista abbia fatto di testa propria, concedendo o negando una sosta.
La reliquia è seguita dalle autorità. Quelle civili: il sindaco, gli assessori e una rappresentanza dei consiglieri comunali più vicini al partito del primo cittadino. E quelle militari: i comandanti della locale stazione dei carabinieri e dei vigili urbani. Tutti sono posizionati dietro il gonfalone comunale, scortato da due vigili.
Uno sparuto gruppo di... “fedelissimi” si frappongono tra il santo e le autorità cittadine, appoggiando la mano sulla vara in segno di richiesta di una grazia particolare. Si tratta di persone che, a causa di una particolare necessità, e quindi di una richiesta al santo, desiderano stare a contatto con la reliquia, nella convinzione che la vicinanza possa agevolare la grazia per se o per un familiare. E’ questa la spiegazione che loro danno. Il problema nasce quando, a grazia avvenuta, sopravvengono altre necessità o il devoto, a quel punto, ritiene di avere acquisito un privilegio, una dispensa che nessuno potrà più togliergli: vale a dire il diritto di stare appoggiato alla vara... a vita!
La loro presenza accanto al fercolo, in una processione così ben ordinata, è considerata dagli organizzatori un elemento di disturbo. Nel tempo, solo i più tenaci riescono a respingere i rimproveri incrociati di parroco e confrati, continuando ad appoggiarsi alla macchina. Poche persone, alla fine accettate dalla comunità dei fedeli con rassegnazione.
Le autorità cittadine vengono così a trovarsi in uno spazio, tra l’altro inquinato dal fumo non catalizzato della marmitta della vecchia Fiat, tra la banda musicale e i privilegiati.
Intanto, la musica del paese esegue tonanti marce, intervallate dalla recitazione, anche cantata, del rosario di san Ciro.
Per tradizione dietro la banda (ma in alcuni anni anche in apertura di processione), sono sistemati, in ordine, tutti gli stendardi, le relative confraternite con i loro segni distintivi, sistemate per importanza.
Le confraternite
Per ogni confraternita, aprono tre persone: uno al centro porta lo stendardo, accompagnato da altri due con il cero acceso. Seguono quindi i membri della confraternita che indossano l’abitino e il medaglione, che però non è mai indossato dai novizi. I confrati sono disposti in due file.
La prima confraternita, la più importante, disposta dopo la banda, è quella del Ss. Sacramento, detta «di li viddani», poiché in passato era composta dal ceto dei contadini (La Spina 1987) un tempo anche i più numerosi in un paese che viveva di agricoltura. Indossano un abitino di tela bianco e un medaglione.
Seguono, poi: quella dell’Addolorata, detta «di li civili» (i civili): in abitino di velluto nero e medaglione; l’Immacolata «di li cummintara» (del quartiere e della chiesa del convento) in abitino di velluto azzurro e medaglione; Gesù Maria e Giuseppe «di li artigiani» (gli artigiani) in abitino di raso azzurro e medaglione; il Redentore «di sant’Anna» (del quartiere e della chiesa di Sant’Anna) con il solo medaglione; San Michele «sammichilara» (del quartiere e della chiesa di San Michele) in abitino di raso giallo e medaglione; Sant’Antonino «di sant’Antuninu» (del quartiere e della chiesa di sant’Antonino); (ibdem) la Misericordia, con un abitino azzurro, quest’ultima di recente costituzione.
Giuseppe Pitrè segnala la presenza di tre sole confraternite: «san Michele Arcangelo, Ss. Sacramento e Anime sante» (1978b: 133), che precedono la vara.
A concludere, oggi, come un secolo fa, ci sono i fedeli, molti dei quali a piedi scalzi, sistemati in linea ai margini della strada. Tutti portano in mano un cero votivo rivolto verso la parte interna del percorso.
Il popolo, in genere, si aggrega per gruppi familiari o per conoscenti e si va sistemando, in fila indiana, per ordine di arrivo.
I tamburi aprono la processione.
Confraternita di San Ciro:
1. Tre confratelli: uno, al centro, porta lo stendardo della confraternita raffigurante san Ciro; ai lati, altri due con un cero acceso.
2. Seguono i confratelli disposti su due file.
3. Tutti (tranne i novizi) indossano un abitino a doppio pettorale di velluto rosso con una palma ricamata, colore oro. Inoltre, portano attorno al collo un medaglione d'argento raffigurante san Ciro.
4. Segno distintivo del superiore è il colore oro del medaglione e la presenza di una piccola croce in ferro.
«Questa processione richiama numerosi fedeli, a tal punto che non tutti riescono a percorrere contemporaneamente il tragitto, che è di circa due chilometri». Così, quando i primi sono di ritorno in chiesa, altri stanno ancora per iniziare il tragitto. Questo avviene soprattutto nel mese di agosto, quando fanno ritorno in paese gli emigrati e le belle serate consentono anche ai più anziani di partecipare numerosi.
Concluso il percorso, la reliquia, prima di essere riportata dentro, sosta circa due ore nella piazza antistante la chiesa Madre, ad attendere il ritorno di tutti i fedeli.
In passato, per il rientro della processione, veniva allestita una piccola impalcatura sulla quale venivano accese le girandole dei fuochi artificiali (cfr. La Spina 1976: 71). Ora si fa ricorso allo spettacolo pirotecnico con le scatole cinesi.
A gennaio, in tarda serata, dopo la benedizione del parroco, si concludono i festeggiamenti. In agosto, invece, la processione si svolge la domenica, mentre il giorno conclusivo della festa è il lunedì.
L’ultimo rito da espletare rimane quello della sistemazione dell’urna all’interno della cappella del santo. Questo lavoro viene svolto, a festa conclusa, dai confrati, in presenza di qualche devoto che assiste da spettatore.
La questua
Già dall’indomani della festa, i confrati sono chiamati a svolgere l’ultimo lavoro, il più faticoso della festa: fare la questua in paese.
La questua viene effettuata nei tre giorni successivi alla festa. I confrati percorrono tutte le strade del paese e, bussando nelle abitazioni, pronunciano la frase: «Santu Ciru!».
Oggi i fedeli danno soltanto offerte in denaro. Mentre in passato i confrati giravano coi muli (Mariano 1961), e successivamente con un’automobile, per trasportare il frumento consegnato dalle famiglie.
In cambio delle offerte vengono distribuite immaginette sacre e stampe di diversi tipi e dimensioni: piccole, cartoline e grandi da incorniciare.

X. LA DIMOSTRANZA DELLA VITA E MARTIRIO DI SAN CIRO

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III.2.2. La dimostranza
Questo scriveva, alla fine dell’Ottocento, Giuseppe Pitré a proposito della manifestazione di Marineo:
«Che cosa sia una Dimostranza può facilmente conoscere chi si dia la piccola fatica di scorrere una pagina sulla drammatica sacra in Sicilia. Dirò nondimeno che essa è una rappresentazione allegorica di un numero indeterminato, ma sempre grande, di personaggi, nella quale viene svolta la vita tutta, o qualche episodio di essa, d’un santo o di una santa. La Dimostranza di Marineo, nota anche nell’antica capitale dell’isola, è certamente uno dei migliori avanzi degli antichi spettacoli del genere» (1978b: 136).
Da allora è trascorso più di un secolo, e tutt’oggi a Marineo la festa di san Ciro è caratterizzata da una serie di manifestazioni che vedono il loro culmine, in genere ogni tre o quattro anni, proprio con la rappresentazione itinerante della vita e della passione del santo patrono.
La funzione originaria della dimostranza non si discosta tanto dal significato etimologico del termine stesso. Intendendo, infatti, “dimostranza” come atto del dimostrare (lat. De-monstrare), il suo scopo fu sin dall’inizio quello di far vedere, far conoscere alla massa dei fedeli la vita e le opere del martire alessandrino, vissuto in un luogo e in un’epoca lontani.
Le origini
Le origini della manifestazione di Marineo si presume che risalgano agli anni immediatamente successivi all’arrivo della reliquia a Marineo. Ma una data precisa non possiamo stabilirla.
Nella già citata cronaca del Corriere dell’Isola di fine Ottocento comunque leggiamo:
«L'epoca della prima rappresentazione io non posso precisarla, ma ritengo che sarà coeva alla venuta del santo, giacché una vecchia di casa mia, la quale conta quattro ventine e quattro anni (così mi dice lei), mi racconta che a' suoi tempi costumavasi rappresentarsi; e che sua madre le facesse menzione pure di altre dimostranze» (Sanfilippo 1894).
E’ interessante inoltre notare come, nonostante il trascorrere del tempo, tante cose siano rimaste immutate.
Oggi, come allora, lo spettacolo:
«[...] si svolge per le vie principali di Marineo, in mezzo a doppia ala di paesani e di forestieri. Il sole brucia senza pietà; ma attori e spettatori sono lì impassibili, gli uni compresi alla importanza della parte da rappresentare, gli altri desiderosi di non perdere mossa, non parola senza azione» (Pitrè 1978b: 137).
Abbattere le distanze sociali
La dimostranza è stata sempre lodata dagli organizzatori in quanto considerata una manifestazione che abbatte le distanze sociali, riuscendo a canalizzare l’attenzione di studenti, operai, professionisti, pensionati. Nel testo tramandato oralmente, «la figura allegorica della Gloria rivolgendosi ai cittadini di Marineo si esprime in questi termini: “Tu popolo di Marineo, senza distinzione di classe venite e adorate l’Altissimo che è il Signore”»[1]. Questo passaggio, mancante nell’ultima edizione, pare sia stato introdotto a fine Ottocento da un farmacista ateo[2].
Questo è il periodo in cui gli intellettuali siciliani abbracciavano l’ideologia sicilianista (Buttitta 1977-78). È anche un momento buio della storia di Marineo: diverse rivolte, tra cui quella dei Fasci Siciliani, vengono represse col sangue.
Verso la fine del secolo li jurnateri avevano rilevato ai civili il diritto alla organizzazione della dimostranza. Fu in seguito a quei mutamenti sociali, infatti, che alle recite cominciarono a partecipare anche i ceti più umili. Quale risposta, un gruppo di civili (si tramanda guidati dallo stesso farmacista), riuscì a ritagliarsi un proprio spazio attraverso l’introduzione della scena XV della cavalleria.
Ciò avvenne, evidentemente, anche per distinguersi dalla massa del popolo appiedata.
Ancora oggi, la recita nella scena della cavalleria, la più spettacolare della manifestazione, è ambita da molti attori. Nell’edizione del 2005, tra gli attori che vi hanno preso parte c’erano anche il sindaco del paese, due assessori e un consigliere comunale. Anche la regia è stata curata da un assessore comunale.
Ci sono delle parti, «ad esempio il san Ciro in carcere, la cavalleria o i giudici che lo condannano particolarmente ambite. Per l’assegnazione, il più delle volte si tiene conto delle persone che già hanno fatto quelle parti, per cui hanno un diritto»[3].
La parte meno ambita, oggi come ne passato, continua ad essere quella del Diavolo, che è l’unico attore lautamente pagato:
«Questo cerbero è pagato a sei tarì al giorno perché il suo lavoro è faticoso. Il Diavolo guadagna sei tarì al giorno; signori socialisti, aprite gli orecchi» (Sanfilippo 1894).
«Secondo l’antica tradizione il Diavolo, appartenente ad una delle famiglie meno fortunate, veniva pagato dall’Angelo, che lo ospitava anche a casa a mangiare. Ancora oggi è l’unica figura che viene pagata, almeno duecento euro, se no, nessuno vuole farla»[4].
Per quanto riguarda il testo, tramandato oralmente, una delle caratteristiche è la lenta ma continua trasformazione, che, a detta degli organizzatori, rende la sceneggiatura sempre viva e attuale.
Nel XVII secolo
Si presume che la dimostranza sia nata alla fine del XVII secolo come semplice processione allegorica con la funzione di narrare ai fedeli la vita del medico alessandrino. Fu solo nella seconda metà del Settecento che vennero introdotti i primi dialoghi. A favorire questa prima trasformazione dell’impianto basilare della rappresentazione contribuì sicuramente la pubblicazione della tragedia del cavaliere Filippo Orioles Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù, avvenuta a Palermo nel 1750. Alcuni dei testi della Passione di Cristo vennero, infatti, utilizzati per rappresentare altrettanti momenti significativi della vita e passione di San Ciro. Nel testo troviamo anche preghiere ed inni tratti dal volume del sacerdote napoletano Salvatore Raia (1902: 131-138).
Francesco Sanfilippo riferisce che il primo ad ordinare i dialoghi fu il sacerdote Andrea Oliva.
Struttura, spazi recitativi e personaggi allegorici
La dimostranza è composta da ventuno quadri, ognuno indipendente, in quanto ad ambientazione scenografica ed interpreti, dagli altri. Il corteo procede infatti a tappe, fermandosi a recitare cinque volte in altrettante piazze. Tale organizzazione dei brani recitativi è resa indispensabile dal carattere itinerante della manifestazione e, in special modo, dal fatto che la medesima scena viene recitata più volte nelle piazze dove vengono allestite le stazioni per questo singolare evento.
Le ventuno scene aprono con il primo quadro di introduzione i cui personaggi, il Genio di Marineo e due araldi, spiegano sinteticamente al pubblico la storia del paese, la vita di san Ciro e il senso della dimostranza. Tale quadro introduttivo prevede la presenza di cavalli e di personaggi in abiti cinquecenteschi, quasi a richiamare il secolo di fondazione del paese.
Le prime quattro scene sono da preludio alla narrazione della vita del santo. Nel secondo quadro si racconta la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, nel rispetto della tradizione consolidata che dal peccato originale fanno dipartire le vicende dell'umana progenie. Il terzo e il quarto quadro introducono alcuni personaggi allegorici (la Religione, la Discordia, la Persecuzione) che, quasi come muse ispiratrici, rappresentano le tematiche della vicenda narrata.
Quindi, dal quinto quadro sino al diciannovesimo si assiste agli episodi salienti della vita di san Ciro: il battesimo, gli studi, la professione medica, l’eremitaggio, l’incontro con il discepolo Giovanni d’Edessa, la persecuzione dei cristiani, la visita nel carcere ad Atanasia e alle tre figliolette, la cattura, il processo, la condanna.
Infine, i quadri ventesimo e ventunesimo celebrano la gloria del santo, prevedendo anche la presenza del carro trionfale. Eseguita la decapitazione, il personaggio di San Ciro viene nuovamente interpretato da un bambino che porta trionfalmente il simbolo del martirio: la palma.
Le piazze
I luoghi preposti ad accogliere la recitazione delle varie scene, nel corso del tempo, sono cambiati in base al modificarsi della struttura urbanistica del paese o alle scelte degli organizzatori.
L'itinerario classico, che valorizza la tradizione e nel contempo risponde alle esigenze funzionali di organizzazione, è comunque rappresentato dal percorso della processione.
Sanfilippo, scrive che il corteo si formava nell'attuale via San Francesco e di conseguenza la prima rappresentazione veniva tenuta, come oggi, in piazza Castello, la più suggestiva, vista la cornice scenografica rappresentata dal maniero cinquecentesco.
Leggendo la cronaca del Corriere dell'Isola si può anche notare come gli attori si disponessero a recitare tutte le volte che vedevano un grande uditorio. Quindi non c’erano, come oggi, le piazze predisposte.
Oggi il corteo prende inizio da corso Vittorio Emanuele e, per raggiungere il castello, attraversa in processione il corso dei Mille. Seguendo l'itinerario delle ultime edizioni, a piazza Castello seguono altre quattro stazioni dove si recita: piazza Sant'Antonino, largo Palumbo, corso dei Mille e, infine, piazza Duomo. Le piazze vengono dotate di amplificazioni e di transenne che le delimitano.
Con esclusione delle scene introduttive e di quelle in cui sono presenti figure allegoriche, la collocazione storica della narrazione coincide col III secolo. La varietà dei costumi, in tal senso, non può che corrispondere con il vestiario tipico dell'epoca tardo-imperiale. Notiamo, di conseguenza, la presenza di luccicanti armature e coloratissime piume.
In prossimità delle rappresentazioni i costumi e le attrezzerie vengono noleggiati presso ditte specializzate e, in parte chiesti in comodato al Teatro Massimo di Palermo.
I personaggi
Molte scene della rappresentazione sono popolate da personaggi non reali, che simbolicamente vestono i panni della Religione o della Persecuzione, dell'Innocenza o della Vanità, della Speranza o della Disperazione[5].
L'utilizzo di tali figure non è prerogativa solo della dimostranza di san Ciro, ma è comune a molte manifestazioni del genere e si inquadra nella funzione didattica di tali rappresentazioni. Nel corso dei secoli l'esigenza di estrapolare certi stati d'animo dei personaggi di queste drammatizzazioni ha reso necessario la personificazione degli stessi con veri e propri attori. Nella finzione scenica, dunque, il pathos recitativo che normalmente dovrebbe essere proprio dell'interprete viene affidato a questi personaggi allegorici che con interventi, spesso in forma poetica, approfondiscono gli aspetti più coinvolgenti della recitazione.
Il carro trionfale
Nella ventunesima scena della dimostranza san Ciro torna ad essere rappresentato da un bambino, che sorride dolce dall’alto del suo carro trionfale. Tutto attorno, ci sono una schiera di angeli che agitano palme e una fiumana di fedeli che spinge e applaude al passaggio dei figuranti.
Ancora una volta il bene ha vinto contro il male, la religione cristiana contro il paganesimo, la vita contro la morte. E’ questo l’ultimo atto dello spettacolo.
Il carro ha delle dimensioni adatte per percorrere le viuzze del centro storico del paese. Ha la forma di una barca: larga metri 2,20 alla base e di metri 2,70 nella parte superiore; lunga metri 4,20. La struttura e poggia su un traino di legno, lu strascinu, con le tradizionali quattro ruote raggiate.
Motore della macchina trionfale è un robusto cavallo legato a due aste. La sicurezza della struttura è, infine, affidata a due freni gommati, applicati sulle ruote posteriori e manovrati con una fune.
Sulla barca vengono applicati dei pannelli di legno compensato con fiori e nastri colorati. L’intero carro è costituito da parti in ferro e parti in legno.
Il cavallo è bardato a festa e richiama i caratteristici finimenti del carretto siciliano.
L’addobbo viene realizzato dai confrati, con stoffa di raso, panno, fiori e palme. Non ci sono indicazioni particolari, se non quella di utilizzare anche i simboli del martirio: fiori rossi e palme[6].
I genere, «i fiori vengono pagati dalla confraternita, anche se può capitare che il fioraio o qualche altro devoto del santo chieda di approntare di tasca propria la spesa, che può aggirarsi attorno ai duecento euro».[7]
Il documento visivo più antico del carro trionfale è una stampa litografica del 1894. Le poche copie rimaste in circolazione sono custodite gelosamente da alcune famiglie di Marineo. Una copia, anch’essa originale, è conservata pure presso il Museo Pitré di Palermo. Per dimensioni e forma è molto simile a quelli realizzati a Palermo per la festa di santa Rosalia.
«Noi lo abbiamo ripreso da questa stampa del 1894, dove il carro era molto grande ed ospitava una banda musicale là sopra. Quello che abbiamo realizzato negli anni ottanta è di dimensioni molto più ridotte, anche per permettere di poter circolare per le strade, per il percorso che la dimostranza poi va a fare, che è un po’ quello della processione. Oggi il carro è presente nell’ultima scena: la chiusura della dimostranza. Nella parte alta del carro vi è un bambino che rappresenta san Ciro in gloria. Nella parte bassa, abbiamo invece degli angeli[8].
Negli anni trenta venne scattata una istantanea molto singolare, dove notiamo che il carro è in realtà un’automobile d’epoca scappottata. Giuseppe Scrò, spiega che «c’è stata, negli anni quaranta, una edizione in cui è stato utilizzato, come carro, un camion Fiat Leoncino»[9].
Dopo un’assenza di circa quaranta anni, nel 1982, la Pro loco ha ripristinato la tradizione del carro a forma di barca, trainato da un animale. Osservando la foto degli anni Ottanta, notiamo una enorme conchiglia al centro della barca che, in qualche modo, si rifà a quella presente nel carro dell’Ottocento. Anche i drappi, posti sui fianchi, sono posizionati in modo simile alla vecchia struttura.
Negli anni successivi la conchiglia verrà sostituita da un palo di legno, alla cui estremità sono legati dei nastri di stoffa colorati. In alcune edizioni, sui bordi della barca verranno collocati dei pannelli disegnati. Per quanto riguarda l’addobbo, in qualche edizione sono stati usati elementi vegetali alloro, rami d’ulivo, spighe e fiori freschi, in altre nastri colorati di stoffa e di carta.
Il carro trionfale viene addobbato in piazza Crocifisso, dove sorge l’omonima chiesa edificata nel 1556, sede della confraternita di san Ciro.
Il corteo con gli attori e il carro trionfale si sposta attraverso le vie del centro storico. Attraversa piazza Castello, passa davanti alla chiesa di Sant’Anna (edificata nel 1565), e giunge in piazza Sant’Antonino, dove sorge la chiesa dedicata al santo di Padova, costruita intorno al 1600.
Proseguendo attraverso la via Umberto primo, il corteo si dirige verso largo Palumbo, nel quartiere San Michele, dove troviamo anche una chiesa edificata nel 1631.
La quarta piazza si trova all’inizio del corso dei Mille, ai piedi del complesso monumentale del Calvario, dove c’è una lunga gradinata con in cima un oratorio dell’Ottocento.
Scendendo dalla parte alta del corso dei Mille, il carro attraversa piazza Inglima (zona commerciale), e infine arriva in piazza Sainte Sigolene. Qui troviamo la chiesa Madre, l’oratorio del SS. Sacramento, il collegio di Maria, la chiesa di San Vincenzo Ferreri e il Municipio.
(TESTO NUOVO)
Note di merito e non solo
Per quanto l'organizzazione della manifestazione occorre aggiungere alcune note di merito. La prima riguarda il ruolo attivo che Giuseppe Piraino ha avuto per anni nel dirigere ed interpretare la Dimostranza, avendo anche scritto un libretto con i testi (a sue spese) negli anni '50. La seconda riguarda il lavoro di monsignor Natale Raineri che, dopo aver pubblicato il libretto e musica sul martirio di san Ciro (a firma Cristaldo Mariano) con la regia di Vincenzo Scaletta, nel 1960 la Dimostranza la fece recitare interamente sul palco. Le modifiche vennero accolte positivamente accolto dalla critica, ma non dai marinesi, abituati com’erano alla rappresentazione itinerante con attori e spettatori a stretto contatto nelle vie e piazze del paese. La stessa edizione fu ripetuta nel 1961 con la regia del professore Rosario Daidone, ottenendo gli stessi risultati dell’anno precedente.
Per quanto riguarda le edizioni di padre Raineri, di tasca sua fece confezionare tutti i costumi per gli attori: pare che abbia venduto un terreno di sua proprietà per far fronte alle spese.
Tanti sono, infine, i marinesi che hanno dato il loro contributo alla riuscita della manifestazione. Tanti anche gli episodi e i contributi originali dati. Tra questi ricordiamo il ruolo del Diavolo che Giovanni Di Salvo interpretò magistralmente nell'edizione sul palco del 1960; in quell'occasone Toto’ Randazzo ebbe il ruolo dell’imperatore Diocleziano e fu l’autore della musica per trombe. Ciro Guastella recitò il ruolo di San Ciro, mentre il professore Ciro Benanti realizzò gli scenari per i 3 atti.

[1] Cfr. in Appendice, Intervista a Francesco Schimmenti.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. in Appendice, I testi della dimostranza del 2000.
[6] Cfr. in Appendice, Intervista a Giuseppe Scrò.
[7] Cfr. in Appendice, Intervista a Pino Taormina.
[8] Ibidem.
[9] Cfr. in Appendice, Intervista Giuseppe Scrò.

IX. UNA PROCESSIONE VOTIVA CHIAMATA "CUNNUTTA"

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.2.1. La cunnutta
Da diverse generazioni, la domenica della festa, i contadini sfilano per il percorso della processione, con muli, asini, cavalli, alla guida di carretti e, a partire dagli anni sessanta, anche di trattori e automobili, per portare frumento o denaro al santo patrono.
La cunnutta è una processione votiva, che si potrebbe configurare come rito propiziatore, assumendo una duplice funzione: da un lato ringraziare il santo per il raccolto dall’annata appena conclusa; dall’altro come richiesta di aiuto per la buona riuscita di quella che sta per iniziare.
La divinità della fertilità
Questo rituale può essere associato al culto latino della dea Cerere, dea propiziatrice delle coltivazioni.
Nella mitologia classica, Cerere (nome romano della dea greca Demetra) era la dea della fertilità, la forza della vegetazione (Grimal 2004: 120). Quando sua figlia Persefone viene rapita da Plutone, che la conduce con sé nelle viscere della terra, la dea affranta e impotente interrompe ogni rapporto con la natura, per cui la terra cessa di dar frutti. Solo dopo aver ritrovato la figlia, Cerere tornerà a garantire la fertilità della terra. Persefone trascorrerà con Plutone, di cui è diventata sposa, quattro mesi dell’anno, e gli altri otto con la madre. Nel mito di Cerere si vede simboleggiato il trionfo momentaneo dell’inverno sulle forze produttive della natura. Secondo la mitologia è stata proprio Cerere a introdurre in Sicilia la coltivazione del grano.
Il ricavato della cunnutta attualmente viene usato dalla congregazione in parte per pagare le spese della festa e in parte per dare un contributo al mantenimento della parrocchia: la confraternita si fa carico di pagare la pulizia della chiesa, prelevando le somme da questo raccolto.
Le trasformazioni
La manifestazione, nel corso degli anni, si è trasformata, a causa dello spopolamento delle campagne e di una diversa realtà economica del paese. Ogni anno, gli abitanti usano fare una stima delle presenze, contando i muli che sfilano.
Nel 1890 sfilarono in processione due bande musicali, centocinquanta tra muli e cavalli, e venti uomini con un sacco di grano a spalla (La Spina 1976). Nel 1990, un secolo dopo, sfilarono una banda musicale, sessantacinque cavalcature ed un solo uomo con il sacco a spalla. In compenso c’erano un centinaio tra automobili e trattori. Nel 2000 hanno partecipato alla processione dodici muli, trentadue cavalli, dieci trattori e sessanta automobili. Inoltre, era presente una delegazione di circa cinquanta emigrati italo-americani a piedi, sistemati dietro la banda musicale accanto alla confraternita di san Ciro.
I pochi agricoltori rimasti in paese partecipano alla cunnutta con i trattori carichi di frumento. Altri devoti portano in processione banconote attaccate sull’immagine del santo, che viene tenuta bene in vista con il sostegno di una canna. C’è anche chi compra il frumento al mulino e partecipa alla processione con la tradizionale bisaccia, affittano il cavallo presso un maneggio a Ficuzza o a Godrano. C’è, infine, chi sfila con il cavallo, i paramenti in cuoio e il cappello da cowboy per mettersi in mostra davanti ai compaesani.
Scomparsi gli uomini con il sacco a spalla, si è incrementata la presenza di persone che portano i soldi a piedi.
In passato avevano il privilegio di sfilare per primi i devoti che portavano più offerte. Oggi, ad aprire la processione è la banda con la confraternita, il sindaco e le persone a piedi. Seguono i cavalli, sistemati in fila indiana e, infine, gli automezzi.
La sopravvivenza, seppure in forma più ridotta rispetto al passato, di questa manifestazione, fornisce un’immagine chiara di quanto a Marineo la tradizione sia ancora sentita e continui a tramandarsi.
Le automobili e i cowboy
I confrati non vedono di buon occhio la partecipazione delle automobili alla processione, tanto e vero che consentono a queste di sfilare solo ad una certa distanza dai cavalli. Negli ultimi anni, tra i cavalli e le auto, su espressa volontà della confraternita, si sono sistemati gruppi di bambini con le biciclette.
Riassumendo, alla processione partecipano oramai pochissimi anziani coi muli. Ci sono anche nostrani cowboy a cavallo, alcuni dei quali non portano offerte al santo. Non sono viste di buon occhio le automobili, anche quando i portabagagli sono stracolmi di sacchi di grano. Sono state inserite le biciclette per separare i cavalli dalle automobili e dai trattori dei contadini. Infine, c’è un ritorno delle persone a piedi.
Ma quando, per esigenze turistiche, la confraternita si è spinta fino a spostare l’ora della manifestazione, inserendola in programma nel pomeriggio, molti i cittadini si sono rifiutati, chiedendo di fare la processione la mattina alle dieci, orario ritenuto più comodo, poiché non sempre il popolo accetta passivamente ciò che viene imposto “dall’alto” (Guggino 2004: 380).
Le offerte
Nella cunnutta dell’agosto 2005 sono stati raccolti circa quattromila euro. Altri mille euro sono stati ricavati dalla vendita del frumento, la cui pesatura si aggirava attorno ai 7.000 kg. A ciò dobbiamo aggiungere anche circa duemila dollari donati dagli italo-americani presenti.
Anche nella descrizione di Giuseppe Pitrè, del 1900, troviamo un cenno agli emigrati:
«[...] le offerte si son chiuse con un gonfalone mandato dai marinesi emigrati in America, memori dei benefici ottenuti dal protettore, e della patria, che essi, costretti ad abbandonarla, non dimenticano mai» (1978b:135).
L'origine mitica
Pitrè non parla però dell’origine mitica della cunnutta, a cui invece sembra riferirsi il racconto di un confrate: Salvatore Tuzzolino:
«Tanti anni fa, in periodo di carestia, non potendosi fare la festa per mancanza di fondi, si era deciso di non fare né festa né la processione, perché quell’anno era venuto non bene, anzi malissimo e non riuscivano a comprare neanche i cosiddetti ceri che si portano durante la processione». Ma, come in un miracolo, da un paese lontano «mi sembra che sia un paese del trapanese, è arrivata una filastrocca di muli carichi di frumento mandati da uno che non so, per una promessa fatta a san Ciro. E si è potuto, con questi muli caricati di frumento, fare la festa di san Ciro di quell’anno».

VIII. LA FESTA DI AGOSTO. SANTU CIRU RICCU

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.2. La festa di agosto
I festeggiamenti in onore del patrono, san Ciro, ricorrono in due distinti periodi dell’anno. Come abbiamo visto, il 31 gennaio è il giorno della festa detta di santu Ciru puvureddu (san Ciro povero), giorno in cui la Chiesa ricorda il martirio del santo, avvenuto nell’anno 303. La penultima di agosto si festeggia, invece, santu Ciru riccu (san Ciro ricco), ricorrenza in cui la parrocchia commemora la donazione della reliquia da parte della Santa sede.
Secondo quanto riferisce Cristaldo Mariano (pseudonimo del parroco Natale Raineri) «la reliquia giunse in paese il 20 agosto 1665, penultima domenica di quel mese» (1961: 199). Ciò sarebbe attestato dalla già citata «pergamena romana», cui fanno riferimento sia i sacerdoti marinesi che i documenti di ricognizione del teschio del 1936.
Nel volume Feste patronali in Sicilia, Giuseppe Pitrè, in una nota, richiama l’attenzione del lettore su un articolo apparso a puntate sul Corriere dell’Isola, tra il 21 e il 23 settembre 1894. L’autore è Francesco Sanfilippo, maestro elementare e locale corrispondente di quel giornale alla fine dell’Ottocento (Fiume 1986).
La festa nel 1894
Sanfilippo fa una dettagliata cronaca della festa del 1894, soffermandosi, in particolare, sulla descrizione della dimostranza. Nella parte introduttiva della esposizione, il maestro riferisce che la festa venne istituita nel mese di gennaio:
«[...] si istituì la festa il 31 gennaro, giorno che la prima volta entrò solennemente la reliquia in paese. Ma per beneplacido dei marinesi, una bolla arcivescovile permise loro di trasportare in trionfo ed il tripudio nel mese d’agosto; mese molto comodo ai campagnuoli che hanno terminato il raccolto» (Sanfilippo 1894).
Non è da escludere che le cose possano essere andate effettivamente come spiega Sanfilippo, e non come invece riferiscono le fonti ufficiali. Infatti, come abbiamo visto prima, la diffusione in paese del nome Ciro sarebbe dovuta iniziare dopo l’arrivo della reliquia, e non due mesi prima. Inoltre, è interessante notare come la festa di san Ciro d’agosto coincida effettivamente con la chiusura di un ciclo produttivo della campagna e l’inizio di uno nuovo.
Ancora oggi, i pochi contadini che hanno terreni in affitto entro la fine di agosto saldano i conti con i proprietari. Mentre i pastori, a fine mese, riconsegnano le terre avute per il pascolo. Agosto, in poche parole, è un mese molto comodo per “saldare i conti” sia coi proprietari delle terre che col santo patrono.
Ciò avviene con la cunnutta, processione in cui i devoti consegnano frumento e denaro al comitato organizzatore dei festeggiamenti, «in segno di riconoscenza al santo per la buona annata» e per garantirsi un buon raccolto anche in quella successiva.
Festa agraria
L’origine della festa patronale di san Ciro, come avviene per altri momenti festivi in Sicilia, aldilà della rifunzionalizzazione cristiana, può essere senz’altro trovata negli antichi riti agrari di propiziazione. Le feste contadine tradizionali hanno sempre avuto, fin da epoca precristiana, un carattere agrario. Erano riti intesi a propiziare l'ordinata scansione dei cicli stagionali, da cui dipendeva il buono o il cattivo destino dei raccolti (Buttitta 1996). Tutto era sottoposto rigidamente ai ritmi naturali: dalla loro annuale regolare ripetizione dipendeva la vita della comunità. Ciascuna festa doveva dunque essere celebrata in un tempo preciso, nel momento in cui in dipendenza dei mutamenti stagionali si passava da un'attività all'altra. L'aratura, la semina, la potatura, la raccolta dei diversi prodotti della terra venivano così a iscriversi in una dimensione religiosa, e i riti a questa connessi assolvevano precipuamente alla funzione di sacralizzare il tempo e lo spazio» (ibidem).
La festa di Marineo è suddivisa in due momenti dell’annata agraria: nel mese di gennaio assistiamo ad una ricorrenza «povera» di spese, ma molto ricca di preghiere (con nove giorni intensi di appuntamenti: rosari, messe, pellegrinaggi) in un momento in cui «la natura deve esprimere tutta la sua energia per produrre» (Giallombardo 1990: 117). A fine agosto, invece, «si recano offerte di grano per garantirsi la buona stagione e la salute del bestiame». (ivi: 118) Infatti, a fine estate «la terra deve prepararsi ai rigori dell’inverno, proteggendo dentro di sé il seme che assicurerà la nuova vegetazione» (ivi: 117).
Oggi questo rapporto tra comunità e natura non è più dominante, come è avvenuto fino alla fine degli anni Cinquanta, quando il paese viveva ancora di agricoltura. In questi casi, a livello collettivo, «la festa si rifunzionalizza a significare un’esigenza di rassicurazione che si origina dalla perdita di coesione delle società tradizionali e dalla conseguente crisi di identità culturale» (ivi: 119).
La festa che si celebra in agosto è molto ricca di valenze folcloristiche e sociali ed è carica di accenti fortemente campanilistici, già individuati da Giuseppe Pitré nella rivalità tra marinesi e misilmeresi e nelle gelosie tra l’africano Ciro e il trentino Giusto.
Gli emigrati
Quello d’agosto è un appuntamento che riesce ad attrarre tantissimi visitatori. In diverse occasioni sono state accolte delegazioni provenienti dagli Stati Uniti. Con il ritorno degli emigrati in paese, che approfittano delle ferie estive per concedersi un poco di riposo con la famiglia, questa festa assume una fondamentale funzione aggregativa e di autoidentificazione della comunità. Gli emigrati «nella festa del proprio paese verificano la persistenza della loro comunità e tornando a riviverla la riconfermano a se stessi» (Buttitta 1996: 265).
Uno degli appuntamenti fissi del calendario festivo è il ricevimento in consiglio comunale degli emigrati presenti in paese nei giorni di festa. Si tratta di una seduta straordinaria dell’assemblea civica, nel corso della quale viene annualmente rinnovato il patto di amicizia tra gli amministratori della terra natia e i fratelli che vivono all’estero. In questa occasione avviene uno scambio di doni (targhe ricordo, oggetti artigianali e simboli nazionali) e si programmano iniziative in comune.
Dal 19 agosto al 12 settembre 2005, nei locali del castello, si è svolta una mostra fotografica, dal titolo “The other Sicily”, sulla festa di san Ciro, negli anni Quaranta, a New York. L’autore è Dominic Quartuccio, fotoreporter italo-americano in pensione, che ha un lungo carnet di premi, viaggi per il mondo e immagini scattate per il New York Times. Di questo parleremo più avanti, quando tratteremo della festa negli Stati Uniti d’America.
Le trasformazioni
Quella di san Ciro è una festa molto vitale che segue i ritmi, la storia e l’evoluzione culturale della comunità. Prova evidente di ciò ne è la dimostranza, spettacolo teatrale itinerante della vita del santo, il cui testo, nel tempo, ha seguito una lenta ma continua trasformazione che, a detta dei marinesi, rende la sceneggiatura sempre viva e attuale. Tutti i tentativi per impedire o alterare la sua naturale metamorfosi sono andati a vuoto.
Un esempio di questa particolarità può essere visto in ciò che è avvenuto negli anni sessanta, quando il parroco Natale Raineri, di colpo, trasformò radicalmente la manifestazione, limitandola, però, ad una fruizione più partecipata ed impegnativa con evidente destinazione teatrale, da rappresentare sul palco. La profonda operazione di “restauro” non riuscì al sacerdote. Gli attori, già dall’edizione successiva, vollero tornare a recitare nelle strade e nelle piazze, con i testi della tradizione, poiché:
«[...] il cosiddetto popolo non accetta passivamente e acriticamente quanto discende “dall’alto”. [...] Quanto è percepito come ancora funzionale a modi di vita, a sistemi di attese, resta; altro cambia; altro si perde, semplicemente perché non ha più ragion d’essere rispetto a mutati regimi di esistenza» (Guggino 2004: 380).
Qualcosa di simile, negli anni Novanta, avvenne anche con la cunnutta, quando la congregazione, per ragioni di fruizione turistica, aveva deciso di spostare l’orario della processione nel pomeriggio. Anche i questo caso, i devoti fecero di testa propria, sfilando come al solito la domenica mattina, alle 10: orario ritenuto più comodo, dovendo anche occuparsi della sistemazione degli animali nelle stalle in un giorno di festa.
Tornando alla dimostranza, anche l’interpretazione del personaggio di san Ciro, nel corso dei decenni, ha subito delle trasformazioni al passo coi tempi. Una persona che ha rivalutato e dato un volto nuovo alla dimostranza è stato il regista Accursio Di Leo. Lui portava delle innovazioni, che chiamava “contaminatio”, per attualizzarla.
Nel corso degli anni, nella scena IX degli infermi, san Ciro si è presentato al pubblico ora come il medico dei mali dello spirito (anni Settanta), ora come il dottore del drogato (anni Ottanta), ora come l’estremo rimedio ai mali della guerra (anni Novanta) o all’odio tra i popoli (Duemila).
E nell’Ottocento?
«Eccoci san Ciro già uomo completo, laureato medico che prodiga le cure agli ammalati poveri e fa prodigi. Egli come tutti i taumaturghi veste con zimmarra, cappello a cilindro e canna d’America col pomo d’argento. (Badate: in quell’epoca del martirio, cioè al terzo secolo dell’era nostra, in Alessandria d’Egitto questa moda dei cappelli a cilindro c’era; forse fu modellata su qualche geroglifico. Ed è per questo che si suol dire: cose d’Egitto)» (Sanfilippo 1894).
Altro esempio emblematico del mutamento del costume è quello della partecipazione delle donne alla manifestazione. Presenti nelle descrizioni di fine Ottocento, le donne sono invece assenti in tutte le fotografie della manifestazione dei primi anni del Novecento fino agli anni Cinquanta.
L’organizzazione di questo momento festivo comporta delle difficoltà economiche non indifferenti. La dimostranza, “colossal” con oltre duecento tra attori volontari, comparse e assistenti di scena, viene organizzata, per questo motivo, con cadenza pluriennale. Pure per ragioni economiche, alla fine dell’Ottocento gli organizzatori alternavano la dimostranza con il carro trionfale. Un anno si rappresentava la prima, un anno andava in scena il secondo (Pitré 1978b).
Anche la cunnutta, processione di devoti che portano frumento al santo, ha subito una lenta metamorfosi. Mancando il retroterra sociale ed economico in cui le feste contadine affondano le radici si è assistito a necessarie trasformazioni, nella forma e, in parte, anche nello spirito.
Così, il mulo viene inesorabilmente sostituito con l’automobile e con i mezzi agricoli; il frumento con il denaro. In compenso, negli ultimi anni, si è assistito ad un ritorno del cavallo: non più compagno di lavoro dell’uomo, ma di svago; non più segno dell’umile condizione del contadino, ma della persona benestante.
Sono molti i fedeli che oggi prendono un cavallo in un maneggio e comprano il frumento al mulino per poter “sfilare” alla cunnutta.
Insomma, la festa continua a radicarsi nei gangli vitali del contesto sociale ed economico in cui vive. Ma le tradizioni, nonostante i cambiamenti fisiologici, continuano a resistere.
Quattro giorni di festa
Le celebrazioni durano quattro giorni. Si aprono il venerdì precedente la penultima domenica di agosto, e si concludono il lunedì successivo. Ognuno di questi giorni è caratterizzato da particolari manifestazioni religiose e civili.
L’organizzazione è curata dalla confraternita, che in quest’occasione, grazie alla presenza di turisti e al ritorno degli emigrati, riesce ad ottenere la collaborazione del Comune e di altri enti quali la Provincia o la Regione, i quali spesso offrono spettacoli folk o altri servizi.
I festeggiamenti hanno ufficialmente inizio il venerdì sera, con la celebrazione, intorno alle diciotto, della messa nella cappella di san Ciro, situata all’ingresso del paese.
Già alcuni giorni prima i devoti, hanno iniziato a fare i viaggi a san Ciro, pellegrinaggi spontanei che precedono entrambe le feste, quella di agosto e quella di gennaio.
Dopo la messa di apertura, si svolge, per le vie del paese, «lu giru di li tammurinara», che annunciano l’inizio della festa.
Il suono del tamburo accompagna sia i momenti festivi invernali che estivi. L’unica differenza consiste nel numero dei suonatori: nel primo caso è sufficiente uno, nel secondo ne vengono contattati almeno quattro.
Per tutto il periodo festivo, ogni giorno si può assistere a diverse gare sportive (tornei di calcio, tennis, pallavolo) e di abilità (gimcane, cacce al tesoro, gare tra quartieri) organizzate in collaborazione con le associazioni locali.
Per le realtà associative, la festa costituisce una “vetrina”, un’occasione per fare conoscere le attività svolte nel corso dell’anno ai concittadini, ma anche per farsi notare dagli amministratori pubblici, che le sostengono con contributi economici.
Fino agli anni Settanta si offriva, invece, uno spettacolo più genuino con le corse con i sacchi o il palo della cuccagna.
I cavalli
La corsa dei cavalli, descritta anche nel documento della festa del 1746 (Deputati della solennità 1746), consisteva, sostanzialmente, nel far correre i cavalli lungo la strada principale del paese, il corso dei Mille, chiamato per questo motivo “la strata di la cursa”.
Da una ventina d’anni a questa parte, per motivi di ordine pubblico, la Prefettura di Palermo non ha più concesso l’autorizzazione alle gare.
In mancanza delle corse, negli ultimi anni, gli allevatori di cavalli hanno chiesto e ottenuto di organizzare delle mostre equine e delle sfilate, per attirare l’attenzione della cittadinanza sulla realtà zootecnica.
Anche gli artigiani hanno cercato di sfruttare l’occasione festiva per pubblicizzare le loro attività. La Mostra dei prodotti di artigianato è stata utilizzata dai sindacati degli artigiani per veicolare una nuova immagine del paese, soprattutto a livello politico regionale: non più comune ad economia agricola e pastorale, bensì artigianale.
Nel già citato documento sulla festa del 1746 «si dà avviso che la Fiera è franca al solito giorni otto prima e quattro dopo». Per l’occasione, infatti, veniva abolita la tassa del dazio.
L’aria festiva, in questi giorni, si avverte fin dalle prime ore del mattino: ogni giorno alle sette vi è l’alborata, ossia lo scoppio di mortai, che ricorda ai marinesi che è un giorno speciale.
Per tutta la giornata, nella chiesa Madre si celebrano messe come per i giorni festivi.
Saltuariamente, il sabato viene celebrata una messa dedicata ai malati. Si tratta di una funzione particolare, poiché oltre alla tradizionale celebrazione, si può assistere all’unzione degli infermi. In passato, «la confraternita si faceva carico, come atto di volontariato, di andare a prendere gli infermi a casa, per farli partecipare alla messa. Anche perché ci affidiamo a san Ciro soprattutto per la cura del nostro corpo, per avere la salute».
L'olio di san Ciro
Oggi questo rituale si pratica solo in chiesa. Ma fino a qualche tempo fa esisteva l’olio di san Ciro, posto in apposite ampolle e portato nelle case dei fedeli dai sacerdoti o dai confrati. In contrada Serena esisteva, inoltre, un ulivo secolare, chiamato dai contadini di Marineo «la chianca di santu Ciru, il cui olio serviva per riempire le ampolle e per alimentare la lampada votiva in chiesa» (Mariano 1964).
Queste usanze sono state accantonate dalle autorità ecclesiastiche, poiché ritenute troppo cariche di valenze magiche e superstiziose. Adesso, l’olio di san Ciro non viene più preparato. Mentre la lampada votiva viene alimentata elettricamente.
Il sabato pomeriggio si entra nel vivo delle manifestazioni, con la dimostranza, rappresentazione in costumi d’epoca della vita del santo, che viene organizzata, in genere, ogni tre o quattro anni.
È, comunque, la domenica il giorno più ricco di celebrazioni religiose.
In mattinata, intorno alle dieci, si svolge la prima processione, la cunnutta, ossia il trasporto dei doni votivi al santo.
Oltre alle consuete messe festive, si svolge una celebrazione solenne con panegirico a mezzogiorno, che vede la presenza delle autorità. Seduti nei banchi riservati nelle prime file troviamo, in ordine, il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, il comandante dei vigili urbani, il superiore e i confrati della confraternita di san Ciro, un gruppo di assessori e consiglieri comunali. «Nelle feste la partecipazione delle massime autorità tanto religiose quanto civili è sempre stata ritenuta indispensabile. La loro presenza, in quanto vertice di fatto dell’intero corpo sociale, costituiva di fatto la garanzia nel momento della rifondazione del tempo, della ricostituzione della società stessa» (Buttitta 1996: 263).
All’ingresso della chiesa viene allestito lu tavulinu: un tavolo con una statuetta di san Ciro in argento e lu cannistru, ossia il cesto dove i devoti consegnano le offerte: in denaro o ex-voto.
All’uscita dalla chiesa, nelle pasticcerie e nei bar, tra le delizie locali che abbondano nei banconi, è possibile acquistare anche il “medaglione di san Ciro”, a base di pasta di mandorle e zucchero.
L’altra celebrazione solenne è quella serale, alle diciannove, officiata all’aperto dal cardinale arcivescovo di Palermo o da un suo vicario, a cui partecipa tutta la comunità.
Dopo la messa vespertina, alle ventuno ha inizio la processione della reliquia del santo. Il percorso e l’ordine processionale è lo stesso di gennaio.
Il lunedì si concludono i festeggiamenti. Alle dodici, nella chiesa Madre, viene celebrata una messa che vede la partecipazione dei sacerdoti marinesi. Questa, soprattutto per i religiosi che vivono fuori paese, è un’occasione per ritornare a casa e incontrare i confratelli. Dopo la messa, i sacerdoti pranzano assieme al parroco per avere un momento di comunione, non solo religiosa, ma anche un rapporto con la comunità locale.
Nel corso della mattinata e nel pomeriggio vengono organizzate manifestazioni di intrattenimento (gare automobilistiche, corse di biciclette o podistiche, sfilate di cavalli, esibizioni di gruppi folk).
I festeggiamenti si chiudono a tarda sera con un concerto musicale. Il nome di grido dell’artista, quando le disponibilità economiche lo consentono, serve a richiamare in paese spettatori dai paesi vicini.
L'economia
Le giornate di festa costituiscono per le attività commerciali una buona fonte di guadagni. Sono i bar, le paninerie, le pizzerie a lavorare più di tutti e fino all’alba. Un incremento degli affari si registra anche per altri settori del commercio: l’abbigliamento e gli alimentari.
L’occasione festiva è uno dei momenti dell’anno in cui viene rinnovato il guardaroba. Mentre a tavola si festeggia con inviti di parenti e abbondanza di portate. La ricorrenza festiva è, infatti, anche l’occasione per sanare contrasti familiari (Buttitta 1996: 263).
I bar, le macellerie e gli esercizi commerciali che hanno fatto buoni affari nei gironi di festa saranno particolarmente generosi con il comitato organizzatore al momento della questua. L’offerta in denaro dei devoti e delle attività commerciali è libera.
A questi operatori commerciali se ne aggiungono altri che montano le bancarelle nei giorni di festa: non mancano mai i tradizionali venditori di calia e simenza, zucchero filato, torrone, palloncini e le giostre. La novità di oggi è la presenza di senegalesi che propongono i loro oggetti etnici e di cinesi con prodotti a buon mercato. A loro non viene chiesto alcun contributo per le spese della festa, pagano soltanto l’occupazione del suolo pubblico al Comune.
A chiudere la festa è uno spettacolo di fuochi pirotecnici che, assieme al concerto musicale richiedono una buona parte delle risorse a disposizione della confraternita.

VII. MARINEO E LA FESTA DI SAN CIRO DI GENNAIO. LA NOVENA, I VIAGGI E LE PREGHIERE

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.1. La festa di gennaio: santu Ciru puvureddu
La festa del 31 gennaio è quella chiamata dalla gente del luogo di «santu Ciru puvureddu». Tale denominazione è spiegata dai fedeli dal fatto che per tutto il periodo festivo si svolgono le sole manifestazioni religiose e sono assenti gli eccessi di agosto: spettacoli musicali e giochi pirotecnici in primo luogo. Pur trattandosi di una festa povera, i preparativi sono, di fatto, più lunghi di quella estiva ed hanno inizio il 22 gennaio, quando la reliquia del santo viene scesa dalla nicchia che la custodisce. Il reliquiario, infatti, è conservato per tutto l’anno nell’altare dedicato al santo, posto sulla navata sinistra della chiesa Madre.
La preparazione
La preparazione della reliquia per questo speciale periodo si svolge esattamente nove giorni prima del 31 gennaio. L’urna viene spostata dalla cappella di san Ciro per essere posta su un’impalcatura in ferro alta circa due metri e ricoperta con drappi ornamentali e composizioni floreali, di colore prevalentemente rosso, per simboleggiare il martirio. Della preparazione di questa struttura e della sistemazione della reliquia in una nuova collocazione si occupano gli iscritti alla congregazione di san Ciro. In questa occasione, l’urna d’argento viene pulita dai confratelli con panni bianchi. E non mancano mai i fedeli che, assistendo alle frenetiche attività di preparazione della festa, passano sul vetro del reliquiario un fazzoletto, che poi baciano con devozione e rimettono in tasca come fosse un prezioso cimelio.
Il trono viene collocato al centro della chiesa, e qui rimane esposto al pubblico culto per tutto il periodo della novena, cioè fino alla sera del 31, quando si chiude la festa.
La novena
La novena è così strutturata. Ogni sera viene recitato il rosario di san Ciro. Si tratta di una serie di preghiere rivolte al santo. Esistono sia un rosario in italiano che altri dialettali. Questi ultimi, in passato venivano recitati nelle case. Oggi solo poche persone li ricordano.
Alle diciannove si celebra la messa: durante l’omelia, i sacerdoti che si alternano nel corso delle serate, commentano le letture del giorno, accennando alla vita e alle opere del santo. I sacerdoti chiamati per l’occasione si alternano: il predicatore della novena, di solito, è un padre secolare o un francescano. Il 30 gennaio, vigilia della festa, dopo il consueto rosario, vengono celebrati i vespri solenni in onore del santo.
Il 31 gennaio
Il 31 gennaio i festeggiamenti iniziano fin dalle sette del mattino con l’alborata, ossia lo scoppio di una serie di mortai. Per tutto il giorno, le strade del paese sono allietate dal suono del tamburo e della banda cittadina. In questa giornata si celebrano messe, con orari festivi, dal primo mattino. È comunque la celebrazione solenne della messa di mezzogiorno ad attrarre, più di ogni altra, la presenza di numerosi fedeli, confratelli e autorità civili e militari che, come nella festa di agosto, prendono posto nei posti riservati nei primi banchi. Alcuni confrati, con l’abitino rosso, trovano invece posto all’ingresso della chiesa, dove viene allestito lu tavulinu per le offerte dei fedeli.
Dopo la messa vespertina, ha inizio la processione che, nel suo svolgimento è identica a quella di agosto. Quando il 31 gennaio le condizioni atmosferiche non consentono lo svolgimento della processione, a causa della forte pioggia o della neve, questa viene rinviata alla prima domenica utile. Il santo rimane sistemato al centro della chiesa fino al giorno della processione.
III.2. I viaggi e le preghiere
Una delle caratteristiche più rilevanti di questa festa è rappresentata da una manifestazione di fede che sfugge all’occhio dell’osservatore più distratto. Si tratta dei cosiddetti viaggi a santu Ciru: un pellegrinaggio spontaneo che numerosi fedeli, a piccoli gruppi, formati in genere da parenti, vicini di casa e conoscenti, fanno qualche sera prima del 31 gennaio o della penultima domenica d’agosto.
Il viaggiu, intrapreso prevalentemente da donne, alcune delle quali a piedi scalzi, consiste nel percorrere il tragitto della processione di san Ciro con la coroncina tra le mani, pregando. Il viaggio si svolge sempre di sera.
Questo pellegrinaggio può essere fatto almeno per due motivi. Il primo è in segno penitenziale, per ringraziare per l’avvenuto miracolo, sia per chiedere una grazia particolare al santo. In tal senso «ha carattere di ex-voto» (Buttitta 1983: 12).
La seconda ragione riguarda, invece, la presenza alla processione di san Ciro: quando una donna non può prendervi parte il giorno stabilito, offre al santo il viaggio in sostituzione.
Negli ultimi anni, oltre alla presenza discreta, quasi invisibile, delle donne che fanno i viaggi spontanei, si è assistito anche alla organizzazione, da parte del parroco, di un pellegrinaggio da lui guidato, al quale partecipano numerosi gli assidui frequentatori della chiesa parrocchiale, anche uomini.
Durante il percorso, che inizia davanti alla chiesa Madre e si snoda lungo il percorso tradizionale della processione (corso dei Mille, piazza Castello, via Garibaldi, piazza sant’Anna, via Umberto I, via Patti, via san Michele, corso dei Mille), si recita il rosario di san Ciro.
Il rosario
Una voce dice:
Salve, o martire San Ciro, / io ti venero e ti ammiro;
tu mi ottieni dal Signore, / il celeste e santo amore.
E in coro si risponde:
Ti lodiamo e supplichiamo, /con fervore in tutte l'ore,
la salute e la virtù, / tu ci ottieni da Gesù.
La preghiera, nella versione dialettale cantata diventa:
Diu vi sarvi Santu Ciru, / tuttu chinu di carità;
aiutatinni e assistitinni, / nni li nostri nicissità.
O gran medicu beneficu, / pi virtù di lu Spiritu Santu
grazia vulemu, / di vui Patri d'Amuri.
O anche:
Santu Ciru virgineddu, / tuttu puru e tuttu beddu,
priati a lu Signuri / pi nuatri piccaturi.
E priamulu tutti l’uri / lu nostru Santu Prutitturi,
oggi e sempri n’cumpagnia / cu Gesù Giuseppi e Maria.
La lode viene intervallata dal Gloria:
Gloria al Padre ed al Figlio / e allo Spirito Superno;
quale fu sempre in eterno / ed ancor sempre sarà.
Lodata sempre sia, / la gran Vergine Maria.
Mille e mille eccelse lodi / al gran Martire del Signore;
Ciro medico eremita / ci guarisce e il ciel ci addita.
La salute ed il vigore / per il corpo e per la mente,
Tu ci ottieni dal Signore / Gesù Cristo onnipotente.
Ci soccorri in tutte l'ore / nostro grande protettore.
È una ripetizione continua delle poste del rosario. E si dicono cinque poste del rosario ripetute, come per il rosario normale.
Scopo del cammino
Al termine del viaggiu, le donne sostano alcuni minuti davanti al portone della matrice, per concludere le preghiere e per chiedere l’intercessione del santo per i bisogni delle loro famiglie. Dunque, questo pellegrinaggio è un atto volontario con il quale il fedele si reca in religiosità di spirito fino ad una meta: il luogo santo. Alla fine del viaggio il pellegrino chiede che venga esaudito un desiderio personale, ma anche un approfondimento della propria vita personale. Ciò è possibile grazie alla purificazione dell’animo attuata lungo il cammino comune fatto in preghiera, penitenza e meditazione.

VI. LA RAPPRESENTAZIONE ICONOGRAFICA DI SAN CIRO: IL PARADISO, IL VESUVIO, LA ROCCA

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
II.1. Le immagini e la devozione
A Marineo la più antica riproduzione iconografica di san Ciro risale alla fine del Seicento (Trentacosti 1998: 83). Si tratta di una tela ad olio, di autore sconosciuto, custodita nella chiesa Madre. Questa è una delle immagini più usate nella stampa dei santini.
Martire in gloria
Il dipinto raffigura san Ciro in gloria, avvolto da una tunica azzurra e da un mantello rosso. Il santo si erge su una nuvola, ed è circondato da putti alati che sorreggono un vangelo, mentre con la mano sinistra tiene la palma del martirio.
Come abbiamo visto nell'Apocalisse di san Giovanni i santi «stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario» (Ap 7, 14-15).
In terra
Nell’immaginario popolare, il santo è invece rappresentato in maniera diversa:
«[...] il concetto di santità non conserva alcunché di metafisico o di ascetico. Il santo non sta nella gloria delle nuvole, non è “assenza” austera e contemplativa ma “presenza” viva, materica e concreta [...] Più prossimo alla terra e alle cose umane per il fatto stesso di essere stato mortale» (Cusumano 1988: 6).
In alcune stampe d’epoca, tuttora in circolazione anche grazie alle recenti ristampe a cura della confraternita, san Ciro è raffigurato con i piedi a terra, mentre tutt’intorno sono rappresentati vari elementi del paesaggio di Marineo, riconoscibile dalla presenza della Rocca che sovrasta le case. Il santo è inoltre rappresentato nel contesto di un evento miracoloso: vale a dire in mezzo ai malati, individuabili dalla presenza delle stampelle.
Anche qui notiamo la palma e il libro quali elementi simbolici di martirio e fede. Ma in questo caso, ci troviamo di fronte una figura più familiare, più confidenziale, più attenta alle richieste dei fedeli.
Il Vesuvio
Rispetto a questi elementi, altre stampe distribuite a partire dai primi del Novecento, presentano delle differenze sostanziali: al posto della Rocca di Marineo notiamo un vulcano fumante, mentre il santo non indossa tunica e mantello, ma un saio marrone.
Queste diversità sono riconducibili all’uso di “santini” di provenienza napoletana, dove san Ciro è particolarmente venerato nella chiesa del Gesù Nuovo. Oltre alla presenza dell’inconfondibile Vesuvio, notiamo come il santo sia rappresentato con un abito da monaco e in età molto più avanzata rispetto a quello di Marineo. Infine, gli elementi simbolici presenti sono, questa volta, la croce e un ramoscello d’ulivo.
Il saio da monaco eremita
Quella di Napoli è una rappresentazione iconografica che non si discosta molto dall’immagine che troviamo nel frontespizio della biografia del martire scritta dal gesuita Francesco Paternò (1707), dove il santo indossa, appunto, un saio da monaco ed è intento a pregare all’ombra di un ulivo secolare, poiché:
«Portatosi quindi egli in Arabia, subito cambiò veste, modo di vivere, e fattasi rasa la testa si vestì da monaco ed intraprese una vita sublime ed elevata» (Prevete 1961, p.43).
Medico bizantino
A Palermo e Monreale, inoltre, esistono delle chiese costruite nel periodo normanno in cui i mosaicisti bizantini hanno raffigurato nelle pareti san Ciro: la Cappella Palatina, la chiesa della Martorana e il duomo di Monreale. La presenza di san Ciro medico nel rito bizantino è da attribuire alla larga diffusione che ebbe il culto del santo alessandrino in Oriente. In queste tre chiese il santo è raffigurato con la cassetta delle medicine e il bisturi in mano, mentre indossa un abito civile del XII secolo. I vespri in onore dei santi Ciro e Giovanni, nell’Ufficiatura del rito bizantino, iniziano queste parole:
Atleti nobilissimi, / * medici inviati da Dio, / * illustri Ciro e Giovanni: / * come avete annientato l'atea alterigia dei tiranni, / * così troncate i tirannici sviamenti della mia mente, / * sanate le passioni della mia anima /* e liberatemi dalla futura condanna, / * supplicando il Redentore.
Medico, eremita, martire
Non essendo certa l’immagine dei primi martiri, questa è stata rielaborata risentendo molto degli influssi culturali in cui è inserita (De Padova 2003; Cusumano 1988).
San Ciro medico eremita martire, è stato rappresentato, quindi, in culture diverse in modo differente: medico nei mosaici bizantini; eremita nella rappresentazione dei gesuiti di Napoli; martire a Marineo, dove i fedeli iniziano il rosario dicendo: «Salve, o martire San Ciro [...]».
Inoltre, come abbiamo visto, vi è una differenza tra il livello istituzionale e quello popolare: diversità riscontrabile anche nelle tecniche, nei materiali usati o nelle orazioni stampate dietro la stessa immagine.
Possiamo, infine, dire che l’elemento caratterizzante del santino popolare è una forte componente narrativa, a differenza del santino colto dove l’immagine tende all’evidenziazione del contenuto concettuale. Per la Chiesa, infatti, le immagini hanno lo scopo di evocare il soggetto. E il metodo migliore è descriverlo nel modo più semplice e senza artifici che potrebbero sviare l’osservatore su questioni marginali.
Non solo la rappresentazione è differente, ma lo stesso rapporto con le immagini sacre assume connotati diversi.
La devozione popolare
La devozione popolare, spesso, si rivolge a certi santi o a certe immagini percorrendo vie del tutto indipendenti da quelle seguite dal culto ufficiale. Per il popolo le immaginette rappresentano il tramite tra il fedele e il santo. Alla santina vengono addirittura attribuiti poteri miracolosi: si pensi all'abitino di stoffa indossato dai malati.
L’immagine di san Ciro viene così portata in ospedale, baciata e poggiata sulla parte malata, perché può guarire da una infermità. La santina può anche rappresentare la presenza del santo nel luogo in cui è posta, in casa o al lavoro: si pensi alle donne che le sistemano nella culla dei bambini o all’abitudine degli artigiani di incollarle sul banco di lavoro. Sono tantissimi, inoltre, i devoti che le conservano nei portafogli. Anche nei cassetti delle case abbondano le immaginette sacre. Vi è anche la credenza popolare secondo la quale non è buono liberarsene, poiché il disfarsene significa annullare la protezione assicurata al devoto, se non addirittura chiamarsi contro sventure (De Padova 2003).
Le immagini soddisfano il bisogno di materializzazione del sacro, dando volto e corpo a personaggi e luoghi di cui si è sentito solo parlare, privatizzando un soggetto di culto collettivo.
Spesso accade che magia, superstizione e religione si confondano dando luogo ad una particolare dimensione religiosa, diversa nei diversi contesti culturali.
In campo popolare le immagini occupano, come gli stessi santi, una posizione di confine: questa volta tra il modello proposto dalla cultura ufficiale e quello in uso presso il popolo (Ibidem).

V - NEL 1665 MARINEO CAMBIA PATRONO: DA SAN GIORGIO A SAN CIRO

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
I.3. Introduzione del culto a Marineo
Nel 1665 Marineo era poco più che un borgo abitato da contadini e pastori. E’ probabile che l’arrivo della reliquia di san Ciro abbia rappresentato, per la piccola comunità, un grande evento, da festeggiare solennemente. Anche il marchese Girolamo Pilo, destinatario della donazione, con questa lodevole iniziativa, avrà innegabilmente tratto popolarità e consensi dalla popolazione. A dire il vero, il paese un suo patrono, san Giorgio, lo possedeva già, e completo di cavallo e di sulfureo drago. Quindi non deve essere stato facile trasferire ad un eremita egiziano, vissuto tredici secoli prima, il culto dedicato ad un eroe medievale, certamente più conosciuto e celebrato in grandi città e piccoli villaggi disseminati dall’Inghilterra alla lontana Russia.
Ad oggi, non è stato possibile ricostruire, né attraverso le fonti storiche né orali, i veri motivi che spinsero gli abitanti di Marineo a cambiare il patrono, a passare sotto la protezione di un nuovo santo. Sappiamo, però, che «una occasione qualunque, un infortunio, una pubblica calamità, bastarono per soppiantare con un nuovo un vecchio patrono; e i devoti con armi e bagaglio, passare sotto la protezione di esso» (Pitrè 1978b: XVI). Unico segno della devozione verso san Giorgio, che ancora oggi continua a rimanere, è l’intitolazione della chiesa madre ai “Santi Ciro e Giorgio”.
Prestigio politico e autorità spirituale
Le reliquie garantivano prestigio politico e autorità spirituale. Un sermone di Walter Suffield, vescovo di Norwich, fu in gran parte dedicato a dimostrare che l’Inghilterra era superiore alle altre nazioni per la collezione di reliquie che possedeva. Non solo una nazione, ma una regione, una città, un individuo acquisiva un nuovo status quando riusciva ad ottenere una reliquia preziosa, che valeva più dell’argento e dell’oro (Sumption 1981: 38).
La presenza dell’insigne reliquia e la notizia delle prime guarigioni operate dal “medico celeste” a Marineo furono certamente due degli elementi che ne decisero il rapido passaggio, in un’epoca piena di carestie e pestilenze come la seconda metà del Seicento. Ancora oggi i marinesi concludono il rosario del santo con una preghiera finale per scongiurare, appunto, «fami, pesti, guerri, tirrimoti, piccati mortali e divini flagelli» (Benanti 1999).
La donazione di Alessandro VII
Il culto di san Ciro a Marineo trae origine dalla donazione di una reliquia concessa da papa Alessandro VII il 20 aprile 1665 al marchese Girolamo Pilo. La concessione e l’autenticità della reliquia, secondo la testimonianza di due parroci di Marineo, Natale Raineri (parroco dal 1923 al 1970) e Francesco La Spina (parroco dal 1970 al 1999), autori di alcuni libri sulla parrocchia, sarebbe provata da una «pergamena romana» (Mariano 1961: 198; La Spina 1976: 15) custodita all’interno dell’altare del santo, in chiesa Madre. Di questo documento si parla anche in un verbale redatto il 31 maggio 1935 in occasione del restauro dell’urna di argento che custodisce il teschio. Nel verbale si legge: «[...] Rimosso facilmente il coperchio, ha estratto un teschio che, da documenti esibiti di cui si annette copia, confortate dalla tradizione locale, risulta essere quello che dal 1665 è venerato quale insigne reliquia di san Ciro Martire». Nell’archivio della confraternita è conservata una copia del documento, però manca la copia della pergamena.
Sull'autenticità delle reliquie
In realtà, quello dell’autenticità delle reliquie dei primi martiri cristiani rimane un argomento di difficile soluzione, tenuto conto del fatto che sono ormai trascorsi tantissimi secoli e, di fatto, non esistono documenti di prima mano. A complicare le cose sono intervenute altre cause. Il commercio di reliquie da parte di custodi senza scrupoli fu denunciato dal papa Gregorio Magno. Le reliquie sono state, fin dall’antichità, oggetto di contese, strumento di potere, prodotto di furti. Eginardo, amico e storico di Carlomagno aveva rubato i corpi di Marcellino e Pietro dalle catacombe di Roma. Uno dei più celebri furti fu la traslazione di san Nicola di Bari nel 1087. I mercanti di Bari, giunti a Mira per i loro commerci, con le spade sguainate lo sottrassero ai monaci increduli dicendo che «lo stesso san Nicola era apparso in sogno ad uno di loro e aveva chiesto di essere trasferito nella fiorente Bari per essere degnamente venerato». Questa è infatti la formula più frequente dei racconti: stato di abbandono della tomba, comparsa del santo in sogno agli uomini incaricati di compiere la traslazione, ripresa del culto e miracoli in favore della nuova comunità che ne venera degnamente le reliquie.
Altra causa di confusione riguarda invece i casi di omonimia, che possono portare ad attribuire le reliquie al più celebre tra omonimi. Come abbiamo visto, la Chiesa annovera ben sette santi di nome Ciro, di cui uno è popolare e sei sono pressoché sconosciuti alla moltitudine dei fedeli.
Il registro parrocchiale
In mancanza di documenti di prima mano, sull’introduzione del culto di san Ciro in paese è sicuramente interessante l’analisi della diffusione del nome Ciro, osservabile attraverso una lettura del registro parrocchiale. E’ un dato certo che dal 1556, anno di istituzione della parrocchia, fino al 1664 nessuna persona in paese si chiamasse Ciro o Cira. Nei documenti dell’archivio parrocchiale questo nome non compare mai. Per la prima volta, il 24 giugno 1665 due genitori, Antonino e Adriana Ficarra, portarono il loro bambino, nato il giorno prima, dal parroco Onofrio Rocco e lo fecero battezzare chiamandolo Ciro. Questo fu il primo bambino marinese a portare il nome del nuovo patrono. Alla fine del 1665 ben 24 nati portavano il nome del santo, mentre nell’arco di due anni il nome Ciro fu dato a più di cento persone, in una popolazione che al tempo contava circa 2300 anime. Un fatto eccezionale, se si considera il tradizionale attaccamento dei siciliani ai nomi familiari o a quelli stereotipati. Anche nei secoli successivi si continuerà di questo passo, cosicché oggi è questo il nome più caratteristico di Marineo.
Pitré e la rivalità tra san Ciro e san Giusto
La prima descrizione etnografica compiuta sulla festa patronale di san Ciro a Marineo è quella di Giuseppe Pitrè. E’ interessante osservare come l’origine mitica del culto sia collegata alla rivalità tra marinesi e misilmeresi, i cui giovani abitanti si prendevano a sassate al confine territoriale. Scrive Pitrè: «Ai tempi dei tempi si trovarono a passare per Marineo due uomini di santa vita: San Ciro e San Giusto; ed allettati dalla bellezza del sito pensarono di rimanervi per sempre, e vi rimasero d’amore e d’accordo. Se non che, un bel giorno, non volendo e non potendo più stare insieme, decisero di dividersi il territorio e di andare ciascuno per fatti suoi: San Ciro prese Marineo, San Giusto Misilmeri. Sembra però che la divisione non avvenisse pacificamente; perché, a conti fatti, San Giusto si accorse di avere un dito di meno, cadutogli per non so che brutto fattogli dal rivale nel momento della divisione. – Questa vendetta si tradusse in odii tra marinesi e misilmeresi, i quali, trattandosi di rivalità, non è motteggio né ingiuria che non si barattino, compresa quella amarissima dei marinesi al presunto nemico del loro patrono: Si Santu Giustu fussi giustu ’un cci mancassi lu jiditu (se San Giusto fosse giusto, non gli mancherebbe il dito), che i misilmeresi non possono mandar giù e ricambiano con motteggi sanguinosi» (Pitrè 1978b: 131).
A proposito della gelosia di due santi e due paesi, sul Corriere dell’Isola del 25-26 settembre 1894 apparve anche una nota sulla «temerarietà dei misilmeresi» che si spinsero fino a togliere le randole dal carro trionfale di san Ciro in modo da farlo abbattere nel momento che fa il suo viaggio trionfale.
Le prime opere d'arte a Marineo
Per quanto riguarda il successivo sviluppo del culto a Marineo, è testimoniato soprattutto dalla commissione di opere d’arte finanziate, a partire dal XVII secolo, sia da parte marchesi di Marineo che dal popolo. Fra le prime opere in cui compare la figura di san Ciro c’è una tela della seconda metà del XVII secolo custodita nella chiesa Madre che lo raffigura circondato da putti alati (Trentacosti 1998: 83). L’urna d’argento che custodisce la reliquia fu finanziata nel 1702 da un devoto, Giovanni Gozzo, per grazia ricevuta. La base del reliquiario venne invece commissionata, nella stessa epoca, dal marchese Ignazio Pilo (Ivi: 90). Mentre, sull’altare monumentale che custodisce il teschio si legge: «edificato nel 1737 essendo marchese di Marineo Ignazio VI col concorso del popolo». Ulteriori testimonianze della diffusione del culto sono anche il mosaico di maiolica collocato nella facciata esterna della Matrice nel 1720; la cappella del 1897; la villa del Collegio e il monumento di san Ciro donato dagli emigrati in America nel 1901.

IV - IL CULTO DELLE RELIQUIE DI SAN CIRO PRESSO LE PRIME COMUNITA' CRISTIANE

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
I.2. Le reliquie e le origini del culto
Come abbiamo visto, Ciro e Giovanni si portarono a Canopo per incoraggiare quattro donne a non venire meno alla loro fede. E non ebbero paura della morte, poiché «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25). Avendo perso la loro vita per il Signore, i martiri rappresentano per i cristiani un grande esempio da seguire, un modello da imitare per riscattarsi dalla morte terrena, dalla malattia, dal peccato. Il solo evocare il nome dei testimoni della fede richiama immediatamente alla mente l'idea del sofferenza, del sangue versato, del sacrificio. Valori che accomunano la loro esperienza a quella di Cristo.
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore porta molto frutto» (Gv 12, 24). E’ con queste parole che Gesù, alla vigilia della Passione, annuncia infatti la sua glorificazione attraverso la morte: «E’ Cristo il chicco di frumento che morendo ha dato frutti di vita immortale. E sulle orme del Re crocefisso si sono posti i suoi discepoli, diventati nel corso dei secoli schiere innumerevoli di ogni nazione, razza, popolo e lingua: apostoli e confessori della fede, vergini e martiri, audaci araldi del vangelo e silenziosi servitori del Regno» (Giovanni Paolo II 2000).
La vicinanza, il legame spirituale tra il sacrificio di Cristo sulla croce, il suo sacrificio eucaristico e il sacrificio dei santi martiri è messo bene in evidenza nell'Apocalisse di san Giovanni: «Vidi sotto l'altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa […]. Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro» (Ap 6, 9; 7, 14-15).
I martiri sono coloro che hanno un rapporto privilegiato con la divinità: per questo motivo possono operare da intermediari tra il contesto terreno e quello divino.
Non c'è dubbio, quindi, che Ciro di Alessandria rappresentò da subito, per la cultura cristiana del tempo, un valido esempio di santità. La sua vita mirabile, nonché la sua gloriosa morte consentirono, infatti, ai primi credenti di additarlo come testimone della fede ad imitazione di Gesù Cristo.
I corpi di Ciro e Giovanni
Per i cristiani dei primi secoli il culto dei santi non differì molto dalla pietà nei confronti dei defunti. Dopo il martirio, avvenuto il 31 gennaio del 303, alcuni uomini del luogo raccolsero i corpi di Ciro e di Giovanni di Edessa. Durante la più violenta delle persecuzioni, quella di Diocleziano, «le reliquie dei martiri erano premurosamente raccolte dai seguaci» (Sumption 1981). Successivamente Ciro e Giovanni vennero sepolti nella chiesa di San Marco, ad Alessandria. E in questo luogo le salme rimasero per un secolo. La venerazione delle reliquie esisteva, quindi, già a partire dal II secolo. Nel V secolo Vittricio vescovo di Rouen descrisse i santi come una legione impegnata nella battaglia contro il male (Sumption 1981).
Prima traslazione
Il 26 giugno del 414 i corpi furono traslati, per mano del patriarca Cirillo, a Menouthis, dove gli abitanti erano dediti a riti pagani. In ognuna delle tre tappe del trasporto dei resti, il prelato tenne una omelia, successivamente trascritte da Sofronio nei suoi Atti (Prevete 1961: 70). La notizia di alcune guarigioni avvenute nel tempio di Menouthis richiamarono a Canopo pellegrini provenienti da ogni parte. Ai tempi di Sofronio la fama di san Ciro doveva essere ancora viva se è vero che «da ogni regione del mondo si ricorreva al suo sepolcro per ottenere la guarigione» (ivi: 34). Lo stesso Patriarca dichiara di essere guarito da una malattia agli occhi a seguito di un sogno.
I teologi e la pietà popolare
Il culto delle reliquie fu criticato fin dagli inizi dai cristiani più rigorosi, considerandolo una forma di paganesimo. In risposta alle critiche, san Girolamo scrisse: «Noi onoriamo le reliquie in onore di colui che trova testimonianza nella loro fede. Noi adoriamo il Maestro attraverso i suoi servi» (Sumption 1981). Lo stesso sant’Agostino chiamò i martiri «templi della fede».
Ma la pietà popolare andava ben oltre il riconoscimento dei teologi, chiedendo al santo la guarigione. A Canopo, all’interno nella chiesa che custodiva i corpi dei due santi, la principale pratica devozionale era quella dell’incubatio, ossia di dormire distesi sul pavimento e attendere, durante il sonno, l’apparizione di san Ciro che indicava i rimedi e le guarigioni. Una comparazione col culto precristiano di Asclepio non è affatto fuori luogo (Bettini 1999: 183). Infatti, sia nei culti precristiani che in quelli dei primi cristiani all’idea del sonno era connessa l’apparizione miracolosa, che spesso aveva specificatamente funzione taumaturgica. Il sogno è considerato, tuttora, come un territorio al confine tra il cielo e la terra, in cui appaiono i santi per orientare o aiutare i vivi. San Tommaso d’Aquino riassunse le varie opinioni, pro e contro il culto delle reliquie, concludendo che andavano venerate per tre motivi. Primo, perché sono il ricordo vivo dei santi. Secondo, perché lo Spirito santo opera anche attraverso l’anima (che è in cielo) e il corpo (sulla terra) dei santi. Terzo, perché attraverso i miracoli avvenuti presso le loro tombe, Dio ha dimostrato il desiderio che vengano venerati: quindi sono intercessori presso il Padre (Sumption 1981).
Aboukir in Egitto
Oggi l’antica città di Canopo non esiste più. Però in quei paraggi, non molto lontano dal sito dove sorgeva il tempio di Menouthis, è nato un villaggio il cui nome è Aboukir (Faivre 1919: 55), ritenuto una deformazione del nome Aba Ciro, a testimonianza dell’antico culto. Non si conosce esattamente l'epoca della rovina del santuario che, probabilmente, è avvenuta dopo l'invasione araba.
A Roma nel medioevo
La fonte che descrive la traslazione delle reliquie a Roma è un codice latino scritto da Gualtiero intorno al 1200, giunto a noi attraverso una copia redatta nel 1600, custodita negli archivi vaticani e riportata dal gesuita Giuseppe Prevete nella sua Raccolta di Atti (Prevete 1961: 121). Secondo il racconto di Gualtiero, due monaci, Grimaldo e Arnolfo, ispirati da un sogno avrebbero prelevato le ossa dei martiri Ciro e Giovanni, salvandole dalla profanazione dei saraceni nella prima metà del VII secolo. Quindi le reliquie furono tumulate a Roma, prima nella chiesa di santa Passera, in via Portuense, e successivamente nella chiesa di sant’Angelo in Pescheria. Ancora oggi, epigrafi, opere d’arte e documenti testimoniano il passaggio dei due corpi nelle chiese romane, mete di pellegrinaggi nel Medioevo. A Roma, ad essere venerati durante tutto il medioevo non erano solo le reliquie corporali dei santi, ma anche gli oggetti che erano stati a contatto con le ossa e la stessa tomba. I pellegrini strofinavano fazzoletti o indumenti sulle lapidi, raccoglievano gocce di olio dalla lampada votiva o terra dal suolo e li consideravano preziose reliquie da custodire (Sumption 1981).