I.2. Le reliquie e le origini del culto
Come abbiamo visto, Ciro e Giovanni si portarono a Canopo per incoraggiare quattro donne a non venire meno alla loro fede. E non ebbero paura della morte, poiché «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25). Avendo perso la loro vita per il Signore, i martiri rappresentano per i cristiani un grande esempio da seguire, un modello da imitare per riscattarsi dalla morte terrena, dalla malattia, dal peccato. Il solo evocare il nome dei testimoni della fede richiama immediatamente alla mente l'idea del sofferenza, del sangue versato, del sacrificio. Valori che accomunano la loro esperienza a quella di Cristo.
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore porta molto frutto» (Gv 12, 24). E’ con queste parole che Gesù, alla vigilia della Passione, annuncia infatti la sua glorificazione attraverso la morte: «E’ Cristo il chicco di frumento che morendo ha dato frutti di vita immortale. E sulle orme del Re crocefisso si sono posti i suoi discepoli, diventati nel corso dei secoli schiere innumerevoli di ogni nazione, razza, popolo e lingua: apostoli e confessori della fede, vergini e martiri, audaci araldi del vangelo e silenziosi servitori del Regno» (Giovanni Paolo II 2000).
La vicinanza, il legame spirituale tra il sacrificio di Cristo sulla croce, il suo sacrificio eucaristico e il sacrificio dei santi martiri è messo bene in evidenza nell'Apocalisse di san Giovanni: «Vidi sotto l'altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa […]. Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro» (Ap 6, 9; 7, 14-15).
I martiri sono coloro che hanno un rapporto privilegiato con la divinità: per questo motivo possono operare da intermediari tra il contesto terreno e quello divino.
Non c'è dubbio, quindi, che Ciro di Alessandria rappresentò da subito, per la cultura cristiana del tempo, un valido esempio di santità. La sua vita mirabile, nonché la sua gloriosa morte consentirono, infatti, ai primi credenti di additarlo come testimone della fede ad imitazione di Gesù Cristo.
Come abbiamo visto, Ciro e Giovanni si portarono a Canopo per incoraggiare quattro donne a non venire meno alla loro fede. E non ebbero paura della morte, poiché «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25). Avendo perso la loro vita per il Signore, i martiri rappresentano per i cristiani un grande esempio da seguire, un modello da imitare per riscattarsi dalla morte terrena, dalla malattia, dal peccato. Il solo evocare il nome dei testimoni della fede richiama immediatamente alla mente l'idea del sofferenza, del sangue versato, del sacrificio. Valori che accomunano la loro esperienza a quella di Cristo.
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore porta molto frutto» (Gv 12, 24). E’ con queste parole che Gesù, alla vigilia della Passione, annuncia infatti la sua glorificazione attraverso la morte: «E’ Cristo il chicco di frumento che morendo ha dato frutti di vita immortale. E sulle orme del Re crocefisso si sono posti i suoi discepoli, diventati nel corso dei secoli schiere innumerevoli di ogni nazione, razza, popolo e lingua: apostoli e confessori della fede, vergini e martiri, audaci araldi del vangelo e silenziosi servitori del Regno» (Giovanni Paolo II 2000).
La vicinanza, il legame spirituale tra il sacrificio di Cristo sulla croce, il suo sacrificio eucaristico e il sacrificio dei santi martiri è messo bene in evidenza nell'Apocalisse di san Giovanni: «Vidi sotto l'altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa […]. Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro» (Ap 6, 9; 7, 14-15).
I martiri sono coloro che hanno un rapporto privilegiato con la divinità: per questo motivo possono operare da intermediari tra il contesto terreno e quello divino.
Non c'è dubbio, quindi, che Ciro di Alessandria rappresentò da subito, per la cultura cristiana del tempo, un valido esempio di santità. La sua vita mirabile, nonché la sua gloriosa morte consentirono, infatti, ai primi credenti di additarlo come testimone della fede ad imitazione di Gesù Cristo.
I corpi di Ciro e Giovanni
Per i cristiani dei primi secoli il culto dei santi non differì molto dalla pietà nei confronti dei defunti. Dopo il martirio, avvenuto il 31 gennaio del 303, alcuni uomini del luogo raccolsero i corpi di Ciro e di Giovanni di Edessa. Durante la più violenta delle persecuzioni, quella di Diocleziano, «le reliquie dei martiri erano premurosamente raccolte dai seguaci» (Sumption 1981). Successivamente Ciro e Giovanni vennero sepolti nella chiesa di San Marco, ad Alessandria. E in questo luogo le salme rimasero per un secolo. La venerazione delle reliquie esisteva, quindi, già a partire dal II secolo. Nel V secolo Vittricio vescovo di Rouen descrisse i santi come una legione impegnata nella battaglia contro il male (Sumption 1981).
Prima traslazione
Il 26 giugno del 414 i corpi furono traslati, per mano del patriarca Cirillo, a Menouthis, dove gli abitanti erano dediti a riti pagani. In ognuna delle tre tappe del trasporto dei resti, il prelato tenne una omelia, successivamente trascritte da Sofronio nei suoi Atti (Prevete 1961: 70). La notizia di alcune guarigioni avvenute nel tempio di Menouthis richiamarono a Canopo pellegrini provenienti da ogni parte. Ai tempi di Sofronio la fama di san Ciro doveva essere ancora viva se è vero che «da ogni regione del mondo si ricorreva al suo sepolcro per ottenere la guarigione» (ivi: 34). Lo stesso Patriarca dichiara di essere guarito da una malattia agli occhi a seguito di un sogno.
I teologi e la pietà popolare
Il culto delle reliquie fu criticato fin dagli inizi dai cristiani più rigorosi, considerandolo una forma di paganesimo. In risposta alle critiche, san Girolamo scrisse: «Noi onoriamo le reliquie in onore di colui che trova testimonianza nella loro fede. Noi adoriamo il Maestro attraverso i suoi servi» (Sumption 1981). Lo stesso sant’Agostino chiamò i martiri «templi della fede».
Ma la pietà popolare andava ben oltre il riconoscimento dei teologi, chiedendo al santo la guarigione. A Canopo, all’interno nella chiesa che custodiva i corpi dei due santi, la principale pratica devozionale era quella dell’incubatio, ossia di dormire distesi sul pavimento e attendere, durante il sonno, l’apparizione di san Ciro che indicava i rimedi e le guarigioni. Una comparazione col culto precristiano di Asclepio non è affatto fuori luogo (Bettini 1999: 183). Infatti, sia nei culti precristiani che in quelli dei primi cristiani all’idea del sonno era connessa l’apparizione miracolosa, che spesso aveva specificatamente funzione taumaturgica. Il sogno è considerato, tuttora, come un territorio al confine tra il cielo e la terra, in cui appaiono i santi per orientare o aiutare i vivi. San Tommaso d’Aquino riassunse le varie opinioni, pro e contro il culto delle reliquie, concludendo che andavano venerate per tre motivi. Primo, perché sono il ricordo vivo dei santi. Secondo, perché lo Spirito santo opera anche attraverso l’anima (che è in cielo) e il corpo (sulla terra) dei santi. Terzo, perché attraverso i miracoli avvenuti presso le loro tombe, Dio ha dimostrato il desiderio che vengano venerati: quindi sono intercessori presso il Padre (Sumption 1981).
Il culto delle reliquie fu criticato fin dagli inizi dai cristiani più rigorosi, considerandolo una forma di paganesimo. In risposta alle critiche, san Girolamo scrisse: «Noi onoriamo le reliquie in onore di colui che trova testimonianza nella loro fede. Noi adoriamo il Maestro attraverso i suoi servi» (Sumption 1981). Lo stesso sant’Agostino chiamò i martiri «templi della fede».
Ma la pietà popolare andava ben oltre il riconoscimento dei teologi, chiedendo al santo la guarigione. A Canopo, all’interno nella chiesa che custodiva i corpi dei due santi, la principale pratica devozionale era quella dell’incubatio, ossia di dormire distesi sul pavimento e attendere, durante il sonno, l’apparizione di san Ciro che indicava i rimedi e le guarigioni. Una comparazione col culto precristiano di Asclepio non è affatto fuori luogo (Bettini 1999: 183). Infatti, sia nei culti precristiani che in quelli dei primi cristiani all’idea del sonno era connessa l’apparizione miracolosa, che spesso aveva specificatamente funzione taumaturgica. Il sogno è considerato, tuttora, come un territorio al confine tra il cielo e la terra, in cui appaiono i santi per orientare o aiutare i vivi. San Tommaso d’Aquino riassunse le varie opinioni, pro e contro il culto delle reliquie, concludendo che andavano venerate per tre motivi. Primo, perché sono il ricordo vivo dei santi. Secondo, perché lo Spirito santo opera anche attraverso l’anima (che è in cielo) e il corpo (sulla terra) dei santi. Terzo, perché attraverso i miracoli avvenuti presso le loro tombe, Dio ha dimostrato il desiderio che vengano venerati: quindi sono intercessori presso il Padre (Sumption 1981).
Aboukir in Egitto
Oggi l’antica città di Canopo non esiste più. Però in quei paraggi, non molto lontano dal sito dove sorgeva il tempio di Menouthis, è nato un villaggio il cui nome è Aboukir (Faivre 1919: 55), ritenuto una deformazione del nome Aba Ciro, a testimonianza dell’antico culto. Non si conosce esattamente l'epoca della rovina del santuario che, probabilmente, è avvenuta dopo l'invasione araba.
Oggi l’antica città di Canopo non esiste più. Però in quei paraggi, non molto lontano dal sito dove sorgeva il tempio di Menouthis, è nato un villaggio il cui nome è Aboukir (Faivre 1919: 55), ritenuto una deformazione del nome Aba Ciro, a testimonianza dell’antico culto. Non si conosce esattamente l'epoca della rovina del santuario che, probabilmente, è avvenuta dopo l'invasione araba.
A Roma nel medioevo
La fonte che descrive la traslazione delle reliquie a Roma è un codice latino scritto da Gualtiero intorno al 1200, giunto a noi attraverso una copia redatta nel 1600, custodita negli archivi vaticani e riportata dal gesuita Giuseppe Prevete nella sua Raccolta di Atti (Prevete 1961: 121). Secondo il racconto di Gualtiero, due monaci, Grimaldo e Arnolfo, ispirati da un sogno avrebbero prelevato le ossa dei martiri Ciro e Giovanni, salvandole dalla profanazione dei saraceni nella prima metà del VII secolo. Quindi le reliquie furono tumulate a Roma, prima nella chiesa di santa Passera, in via Portuense, e successivamente nella chiesa di sant’Angelo in Pescheria. Ancora oggi, epigrafi, opere d’arte e documenti testimoniano il passaggio dei due corpi nelle chiese romane, mete di pellegrinaggi nel Medioevo. A Roma, ad essere venerati durante tutto il medioevo non erano solo le reliquie corporali dei santi, ma anche gli oggetti che erano stati a contatto con le ossa e la stessa tomba. I pellegrini strofinavano fazzoletti o indumenti sulle lapidi, raccoglievano gocce di olio dalla lampada votiva o terra dal suolo e li consideravano preziose reliquie da custodire (Sumption 1981).
La fonte che descrive la traslazione delle reliquie a Roma è un codice latino scritto da Gualtiero intorno al 1200, giunto a noi attraverso una copia redatta nel 1600, custodita negli archivi vaticani e riportata dal gesuita Giuseppe Prevete nella sua Raccolta di Atti (Prevete 1961: 121). Secondo il racconto di Gualtiero, due monaci, Grimaldo e Arnolfo, ispirati da un sogno avrebbero prelevato le ossa dei martiri Ciro e Giovanni, salvandole dalla profanazione dei saraceni nella prima metà del VII secolo. Quindi le reliquie furono tumulate a Roma, prima nella chiesa di santa Passera, in via Portuense, e successivamente nella chiesa di sant’Angelo in Pescheria. Ancora oggi, epigrafi, opere d’arte e documenti testimoniano il passaggio dei due corpi nelle chiese romane, mete di pellegrinaggi nel Medioevo. A Roma, ad essere venerati durante tutto il medioevo non erano solo le reliquie corporali dei santi, ma anche gli oggetti che erano stati a contatto con le ossa e la stessa tomba. I pellegrini strofinavano fazzoletti o indumenti sulle lapidi, raccoglievano gocce di olio dalla lampada votiva o terra dal suolo e li consideravano preziose reliquie da custodire (Sumption 1981).