X. LA DIMOSTRANZA DELLA VITA E MARTIRIO DI SAN CIRO

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.2.2. La dimostranza
Questo scriveva, alla fine dell’Ottocento, Giuseppe Pitré a proposito della manifestazione di Marineo:
«Che cosa sia una Dimostranza può facilmente conoscere chi si dia la piccola fatica di scorrere una pagina sulla drammatica sacra in Sicilia. Dirò nondimeno che essa è una rappresentazione allegorica di un numero indeterminato, ma sempre grande, di personaggi, nella quale viene svolta la vita tutta, o qualche episodio di essa, d’un santo o di una santa. La Dimostranza di Marineo, nota anche nell’antica capitale dell’isola, è certamente uno dei migliori avanzi degli antichi spettacoli del genere» (1978b: 136).
Da allora è trascorso più di un secolo, e tutt’oggi a Marineo la festa di san Ciro è caratterizzata da una serie di manifestazioni che vedono il loro culmine, in genere ogni tre o quattro anni, proprio con la rappresentazione itinerante della vita e della passione del santo patrono.
La funzione originaria della dimostranza non si discosta tanto dal significato etimologico del termine stesso. Intendendo, infatti, “dimostranza” come atto del dimostrare (lat. De-monstrare), il suo scopo fu sin dall’inizio quello di far vedere, far conoscere alla massa dei fedeli la vita e le opere del martire alessandrino, vissuto in un luogo e in un’epoca lontani.
Le origini
Le origini della manifestazione di Marineo si presume che risalgano agli anni immediatamente successivi all’arrivo della reliquia a Marineo. Ma una data precisa non possiamo stabilirla.
Nella già citata cronaca del Corriere dell’Isola di fine Ottocento comunque leggiamo:
«L'epoca della prima rappresentazione io non posso precisarla, ma ritengo che sarà coeva alla venuta del santo, giacché una vecchia di casa mia, la quale conta quattro ventine e quattro anni (così mi dice lei), mi racconta che a' suoi tempi costumavasi rappresentarsi; e che sua madre le facesse menzione pure di altre dimostranze» (Sanfilippo 1894).
E’ interessante inoltre notare come, nonostante il trascorrere del tempo, tante cose siano rimaste immutate.
Oggi, come allora, lo spettacolo:
«[...] si svolge per le vie principali di Marineo, in mezzo a doppia ala di paesani e di forestieri. Il sole brucia senza pietà; ma attori e spettatori sono lì impassibili, gli uni compresi alla importanza della parte da rappresentare, gli altri desiderosi di non perdere mossa, non parola senza azione» (Pitrè 1978b: 137).
Abbattere le distanze sociali
La dimostranza è stata sempre lodata dagli organizzatori in quanto considerata una manifestazione che abbatte le distanze sociali, riuscendo a canalizzare l’attenzione di studenti, operai, professionisti, pensionati. Nel testo tramandato oralmente, «la figura allegorica della Gloria rivolgendosi ai cittadini di Marineo si esprime in questi termini: “Tu popolo di Marineo, senza distinzione di classe venite e adorate l’Altissimo che è il Signore”»[1]. Questo passaggio, mancante nell’ultima edizione, pare sia stato introdotto a fine Ottocento da un farmacista ateo[2].
Questo è il periodo in cui gli intellettuali siciliani abbracciavano l’ideologia sicilianista (Buttitta 1977-78). È anche un momento buio della storia di Marineo: diverse rivolte, tra cui quella dei Fasci Siciliani, vengono represse col sangue.
Verso la fine del secolo li jurnateri avevano rilevato ai civili il diritto alla organizzazione della dimostranza. Fu in seguito a quei mutamenti sociali, infatti, che alle recite cominciarono a partecipare anche i ceti più umili. Quale risposta, un gruppo di civili (si tramanda guidati dallo stesso farmacista), riuscì a ritagliarsi un proprio spazio attraverso l’introduzione della scena XV della cavalleria.
Ciò avvenne, evidentemente, anche per distinguersi dalla massa del popolo appiedata.
Ancora oggi, la recita nella scena della cavalleria, la più spettacolare della manifestazione, è ambita da molti attori. Nell’edizione del 2005, tra gli attori che vi hanno preso parte c’erano anche il sindaco del paese, due assessori e un consigliere comunale. Anche la regia è stata curata da un assessore comunale.
Ci sono delle parti, «ad esempio il san Ciro in carcere, la cavalleria o i giudici che lo condannano particolarmente ambite. Per l’assegnazione, il più delle volte si tiene conto delle persone che già hanno fatto quelle parti, per cui hanno un diritto»[3].
La parte meno ambita, oggi come ne passato, continua ad essere quella del Diavolo, che è l’unico attore lautamente pagato:
«Questo cerbero è pagato a sei tarì al giorno perché il suo lavoro è faticoso. Il Diavolo guadagna sei tarì al giorno; signori socialisti, aprite gli orecchi» (Sanfilippo 1894).
«Secondo l’antica tradizione il Diavolo, appartenente ad una delle famiglie meno fortunate, veniva pagato dall’Angelo, che lo ospitava anche a casa a mangiare. Ancora oggi è l’unica figura che viene pagata, almeno duecento euro, se no, nessuno vuole farla»[4].
Per quanto riguarda il testo, tramandato oralmente, una delle caratteristiche è la lenta ma continua trasformazione, che, a detta degli organizzatori, rende la sceneggiatura sempre viva e attuale.
Nel XVII secolo
Si presume che la dimostranza sia nata alla fine del XVII secolo come semplice processione allegorica con la funzione di narrare ai fedeli la vita del medico alessandrino. Fu solo nella seconda metà del Settecento che vennero introdotti i primi dialoghi. A favorire questa prima trasformazione dell’impianto basilare della rappresentazione contribuì sicuramente la pubblicazione della tragedia del cavaliere Filippo Orioles Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù, avvenuta a Palermo nel 1750. Alcuni dei testi della Passione di Cristo vennero, infatti, utilizzati per rappresentare altrettanti momenti significativi della vita e passione di San Ciro. Nel testo troviamo anche preghiere ed inni tratti dal volume del sacerdote napoletano Salvatore Raia (1902: 131-138).
Francesco Sanfilippo riferisce che il primo ad ordinare i dialoghi fu il sacerdote Andrea Oliva.
Struttura, spazi recitativi e personaggi allegorici
La dimostranza è composta da ventuno quadri, ognuno indipendente, in quanto ad ambientazione scenografica ed interpreti, dagli altri. Il corteo procede infatti a tappe, fermandosi a recitare cinque volte in altrettante piazze. Tale organizzazione dei brani recitativi è resa indispensabile dal carattere itinerante della manifestazione e, in special modo, dal fatto che la medesima scena viene recitata più volte nelle piazze dove vengono allestite le stazioni per questo singolare evento.
Le ventuno scene aprono con il primo quadro di introduzione i cui personaggi, il Genio di Marineo e due araldi, spiegano sinteticamente al pubblico la storia del paese, la vita di san Ciro e il senso della dimostranza. Tale quadro introduttivo prevede la presenza di cavalli e di personaggi in abiti cinquecenteschi, quasi a richiamare il secolo di fondazione del paese.
Le prime quattro scene sono da preludio alla narrazione della vita del santo. Nel secondo quadro si racconta la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, nel rispetto della tradizione consolidata che dal peccato originale fanno dipartire le vicende dell'umana progenie. Il terzo e il quarto quadro introducono alcuni personaggi allegorici (la Religione, la Discordia, la Persecuzione) che, quasi come muse ispiratrici, rappresentano le tematiche della vicenda narrata.
Quindi, dal quinto quadro sino al diciannovesimo si assiste agli episodi salienti della vita di san Ciro: il battesimo, gli studi, la professione medica, l’eremitaggio, l’incontro con il discepolo Giovanni d’Edessa, la persecuzione dei cristiani, la visita nel carcere ad Atanasia e alle tre figliolette, la cattura, il processo, la condanna.
Infine, i quadri ventesimo e ventunesimo celebrano la gloria del santo, prevedendo anche la presenza del carro trionfale. Eseguita la decapitazione, il personaggio di San Ciro viene nuovamente interpretato da un bambino che porta trionfalmente il simbolo del martirio: la palma.
Le piazze
I luoghi preposti ad accogliere la recitazione delle varie scene, nel corso del tempo, sono cambiati in base al modificarsi della struttura urbanistica del paese o alle scelte degli organizzatori.
L'itinerario classico, che valorizza la tradizione e nel contempo risponde alle esigenze funzionali di organizzazione, è comunque rappresentato dal percorso della processione.
Sanfilippo, scrive che il corteo si formava nell'attuale via San Francesco e di conseguenza la prima rappresentazione veniva tenuta, come oggi, in piazza Castello, la più suggestiva, vista la cornice scenografica rappresentata dal maniero cinquecentesco.
Leggendo la cronaca del Corriere dell'Isola si può anche notare come gli attori si disponessero a recitare tutte le volte che vedevano un grande uditorio. Quindi non c’erano, come oggi, le piazze predisposte.
Oggi il corteo prende inizio da corso Vittorio Emanuele e, per raggiungere il castello, attraversa in processione il corso dei Mille. Seguendo l'itinerario delle ultime edizioni, a piazza Castello seguono altre quattro stazioni dove si recita: piazza Sant'Antonino, largo Palumbo, corso dei Mille e, infine, piazza Duomo. Le piazze vengono dotate di amplificazioni e di transenne che le delimitano.
Con esclusione delle scene introduttive e di quelle in cui sono presenti figure allegoriche, la collocazione storica della narrazione coincide col III secolo. La varietà dei costumi, in tal senso, non può che corrispondere con il vestiario tipico dell'epoca tardo-imperiale. Notiamo, di conseguenza, la presenza di luccicanti armature e coloratissime piume.
In prossimità delle rappresentazioni i costumi e le attrezzerie vengono noleggiati presso ditte specializzate e, in parte chiesti in comodato al Teatro Massimo di Palermo.
I personaggi
Molte scene della rappresentazione sono popolate da personaggi non reali, che simbolicamente vestono i panni della Religione o della Persecuzione, dell'Innocenza o della Vanità, della Speranza o della Disperazione[5].
L'utilizzo di tali figure non è prerogativa solo della dimostranza di san Ciro, ma è comune a molte manifestazioni del genere e si inquadra nella funzione didattica di tali rappresentazioni. Nel corso dei secoli l'esigenza di estrapolare certi stati d'animo dei personaggi di queste drammatizzazioni ha reso necessario la personificazione degli stessi con veri e propri attori. Nella finzione scenica, dunque, il pathos recitativo che normalmente dovrebbe essere proprio dell'interprete viene affidato a questi personaggi allegorici che con interventi, spesso in forma poetica, approfondiscono gli aspetti più coinvolgenti della recitazione.
Il carro trionfale
Nella ventunesima scena della dimostranza san Ciro torna ad essere rappresentato da un bambino, che sorride dolce dall’alto del suo carro trionfale. Tutto attorno, ci sono una schiera di angeli che agitano palme e una fiumana di fedeli che spinge e applaude al passaggio dei figuranti.
Ancora una volta il bene ha vinto contro il male, la religione cristiana contro il paganesimo, la vita contro la morte. E’ questo l’ultimo atto dello spettacolo.
Il carro ha delle dimensioni adatte per percorrere le viuzze del centro storico del paese. Ha la forma di una barca: larga metri 2,20 alla base e di metri 2,70 nella parte superiore; lunga metri 4,20. La struttura e poggia su un traino di legno, lu strascinu, con le tradizionali quattro ruote raggiate.
Motore della macchina trionfale è un robusto cavallo legato a due aste. La sicurezza della struttura è, infine, affidata a due freni gommati, applicati sulle ruote posteriori e manovrati con una fune.
Sulla barca vengono applicati dei pannelli di legno compensato con fiori e nastri colorati. L’intero carro è costituito da parti in ferro e parti in legno.
Il cavallo è bardato a festa e richiama i caratteristici finimenti del carretto siciliano.
L’addobbo viene realizzato dai confrati, con stoffa di raso, panno, fiori e palme. Non ci sono indicazioni particolari, se non quella di utilizzare anche i simboli del martirio: fiori rossi e palme[6].
I genere, «i fiori vengono pagati dalla confraternita, anche se può capitare che il fioraio o qualche altro devoto del santo chieda di approntare di tasca propria la spesa, che può aggirarsi attorno ai duecento euro».[7]
Il documento visivo più antico del carro trionfale è una stampa litografica del 1894. Le poche copie rimaste in circolazione sono custodite gelosamente da alcune famiglie di Marineo. Una copia, anch’essa originale, è conservata pure presso il Museo Pitré di Palermo. Per dimensioni e forma è molto simile a quelli realizzati a Palermo per la festa di santa Rosalia.
«Noi lo abbiamo ripreso da questa stampa del 1894, dove il carro era molto grande ed ospitava una banda musicale là sopra. Quello che abbiamo realizzato negli anni ottanta è di dimensioni molto più ridotte, anche per permettere di poter circolare per le strade, per il percorso che la dimostranza poi va a fare, che è un po’ quello della processione. Oggi il carro è presente nell’ultima scena: la chiusura della dimostranza. Nella parte alta del carro vi è un bambino che rappresenta san Ciro in gloria. Nella parte bassa, abbiamo invece degli angeli[8].
Negli anni trenta venne scattata una istantanea molto singolare, dove notiamo che il carro è in realtà un’automobile d’epoca scappottata. Giuseppe Scrò, spiega che «c’è stata, negli anni quaranta, una edizione in cui è stato utilizzato, come carro, un camion Fiat Leoncino»[9].
Dopo un’assenza di circa quaranta anni, nel 1982, la Pro loco ha ripristinato la tradizione del carro a forma di barca, trainato da un animale. Osservando la foto degli anni Ottanta, notiamo una enorme conchiglia al centro della barca che, in qualche modo, si rifà a quella presente nel carro dell’Ottocento. Anche i drappi, posti sui fianchi, sono posizionati in modo simile alla vecchia struttura.
Negli anni successivi la conchiglia verrà sostituita da un palo di legno, alla cui estremità sono legati dei nastri di stoffa colorati. In alcune edizioni, sui bordi della barca verranno collocati dei pannelli disegnati. Per quanto riguarda l’addobbo, in qualche edizione sono stati usati elementi vegetali alloro, rami d’ulivo, spighe e fiori freschi, in altre nastri colorati di stoffa e di carta.
Il carro trionfale viene addobbato in piazza Crocifisso, dove sorge l’omonima chiesa edificata nel 1556, sede della confraternita di san Ciro.
Il corteo con gli attori e il carro trionfale si sposta attraverso le vie del centro storico. Attraversa piazza Castello, passa davanti alla chiesa di Sant’Anna (edificata nel 1565), e giunge in piazza Sant’Antonino, dove sorge la chiesa dedicata al santo di Padova, costruita intorno al 1600.
Proseguendo attraverso la via Umberto primo, il corteo si dirige verso largo Palumbo, nel quartiere San Michele, dove troviamo anche una chiesa edificata nel 1631.
La quarta piazza si trova all’inizio del corso dei Mille, ai piedi del complesso monumentale del Calvario, dove c’è una lunga gradinata con in cima un oratorio dell’Ottocento.
Scendendo dalla parte alta del corso dei Mille, il carro attraversa piazza Inglima (zona commerciale), e infine arriva in piazza Sainte Sigolene. Qui troviamo la chiesa Madre, l’oratorio del SS. Sacramento, il collegio di Maria, la chiesa di San Vincenzo Ferreri e il Municipio.
(TESTO NUOVO)
Note di merito e non solo
Per quanto l'organizzazione della manifestazione occorre aggiungere alcune note di merito. La prima riguarda il ruolo attivo che Giuseppe Piraino ha avuto per anni nel dirigere ed interpretare la Dimostranza, avendo anche scritto un libretto con i testi (a sue spese) negli anni '50. La seconda riguarda il lavoro di monsignor Natale Raineri che, dopo aver pubblicato il libretto e musica sul martirio di san Ciro (a firma Cristaldo Mariano) con la regia di Vincenzo Scaletta, nel 1960 la Dimostranza la fece recitare interamente sul palco. Le modifiche vennero accolte positivamente accolto dalla critica, ma non dai marinesi, abituati com’erano alla rappresentazione itinerante con attori e spettatori a stretto contatto nelle vie e piazze del paese. La stessa edizione fu ripetuta nel 1961 con la regia del professore Rosario Daidone, ottenendo gli stessi risultati dell’anno precedente.
Per quanto riguarda le edizioni di padre Raineri, di tasca sua fece confezionare tutti i costumi per gli attori: pare che abbia venduto un terreno di sua proprietà per far fronte alle spese.
Tanti sono, infine, i marinesi che hanno dato il loro contributo alla riuscita della manifestazione. Tanti anche gli episodi e i contributi originali dati. Tra questi ricordiamo il ruolo del Diavolo che Giovanni Di Salvo interpretò magistralmente nell'edizione sul palco del 1960; in quell'occasone Toto’ Randazzo ebbe il ruolo dell’imperatore Diocleziano e fu l’autore della musica per trombe. Ciro Guastella recitò il ruolo di San Ciro, mentre il professore Ciro Benanti realizzò gli scenari per i 3 atti.

[1] Cfr. in Appendice, Intervista a Francesco Schimmenti.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. in Appendice, I testi della dimostranza del 2000.
[6] Cfr. in Appendice, Intervista a Giuseppe Scrò.
[7] Cfr. in Appendice, Intervista a Pino Taormina.
[8] Ibidem.
[9] Cfr. in Appendice, Intervista Giuseppe Scrò.

IX. UNA PROCESSIONE VOTIVA CHIAMATA "CUNNUTTA"

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.2.1. La cunnutta
Da diverse generazioni, la domenica della festa, i contadini sfilano per il percorso della processione, con muli, asini, cavalli, alla guida di carretti e, a partire dagli anni sessanta, anche di trattori e automobili, per portare frumento o denaro al santo patrono.
La cunnutta è una processione votiva, che si potrebbe configurare come rito propiziatore, assumendo una duplice funzione: da un lato ringraziare il santo per il raccolto dall’annata appena conclusa; dall’altro come richiesta di aiuto per la buona riuscita di quella che sta per iniziare.
La divinità della fertilità
Questo rituale può essere associato al culto latino della dea Cerere, dea propiziatrice delle coltivazioni.
Nella mitologia classica, Cerere (nome romano della dea greca Demetra) era la dea della fertilità, la forza della vegetazione (Grimal 2004: 120). Quando sua figlia Persefone viene rapita da Plutone, che la conduce con sé nelle viscere della terra, la dea affranta e impotente interrompe ogni rapporto con la natura, per cui la terra cessa di dar frutti. Solo dopo aver ritrovato la figlia, Cerere tornerà a garantire la fertilità della terra. Persefone trascorrerà con Plutone, di cui è diventata sposa, quattro mesi dell’anno, e gli altri otto con la madre. Nel mito di Cerere si vede simboleggiato il trionfo momentaneo dell’inverno sulle forze produttive della natura. Secondo la mitologia è stata proprio Cerere a introdurre in Sicilia la coltivazione del grano.
Il ricavato della cunnutta attualmente viene usato dalla congregazione in parte per pagare le spese della festa e in parte per dare un contributo al mantenimento della parrocchia: la confraternita si fa carico di pagare la pulizia della chiesa, prelevando le somme da questo raccolto.
Le trasformazioni
La manifestazione, nel corso degli anni, si è trasformata, a causa dello spopolamento delle campagne e di una diversa realtà economica del paese. Ogni anno, gli abitanti usano fare una stima delle presenze, contando i muli che sfilano.
Nel 1890 sfilarono in processione due bande musicali, centocinquanta tra muli e cavalli, e venti uomini con un sacco di grano a spalla (La Spina 1976). Nel 1990, un secolo dopo, sfilarono una banda musicale, sessantacinque cavalcature ed un solo uomo con il sacco a spalla. In compenso c’erano un centinaio tra automobili e trattori. Nel 2000 hanno partecipato alla processione dodici muli, trentadue cavalli, dieci trattori e sessanta automobili. Inoltre, era presente una delegazione di circa cinquanta emigrati italo-americani a piedi, sistemati dietro la banda musicale accanto alla confraternita di san Ciro.
I pochi agricoltori rimasti in paese partecipano alla cunnutta con i trattori carichi di frumento. Altri devoti portano in processione banconote attaccate sull’immagine del santo, che viene tenuta bene in vista con il sostegno di una canna. C’è anche chi compra il frumento al mulino e partecipa alla processione con la tradizionale bisaccia, affittano il cavallo presso un maneggio a Ficuzza o a Godrano. C’è, infine, chi sfila con il cavallo, i paramenti in cuoio e il cappello da cowboy per mettersi in mostra davanti ai compaesani.
Scomparsi gli uomini con il sacco a spalla, si è incrementata la presenza di persone che portano i soldi a piedi.
In passato avevano il privilegio di sfilare per primi i devoti che portavano più offerte. Oggi, ad aprire la processione è la banda con la confraternita, il sindaco e le persone a piedi. Seguono i cavalli, sistemati in fila indiana e, infine, gli automezzi.
La sopravvivenza, seppure in forma più ridotta rispetto al passato, di questa manifestazione, fornisce un’immagine chiara di quanto a Marineo la tradizione sia ancora sentita e continui a tramandarsi.
Le automobili e i cowboy
I confrati non vedono di buon occhio la partecipazione delle automobili alla processione, tanto e vero che consentono a queste di sfilare solo ad una certa distanza dai cavalli. Negli ultimi anni, tra i cavalli e le auto, su espressa volontà della confraternita, si sono sistemati gruppi di bambini con le biciclette.
Riassumendo, alla processione partecipano oramai pochissimi anziani coi muli. Ci sono anche nostrani cowboy a cavallo, alcuni dei quali non portano offerte al santo. Non sono viste di buon occhio le automobili, anche quando i portabagagli sono stracolmi di sacchi di grano. Sono state inserite le biciclette per separare i cavalli dalle automobili e dai trattori dei contadini. Infine, c’è un ritorno delle persone a piedi.
Ma quando, per esigenze turistiche, la confraternita si è spinta fino a spostare l’ora della manifestazione, inserendola in programma nel pomeriggio, molti i cittadini si sono rifiutati, chiedendo di fare la processione la mattina alle dieci, orario ritenuto più comodo, poiché non sempre il popolo accetta passivamente ciò che viene imposto “dall’alto” (Guggino 2004: 380).
Le offerte
Nella cunnutta dell’agosto 2005 sono stati raccolti circa quattromila euro. Altri mille euro sono stati ricavati dalla vendita del frumento, la cui pesatura si aggirava attorno ai 7.000 kg. A ciò dobbiamo aggiungere anche circa duemila dollari donati dagli italo-americani presenti.
Anche nella descrizione di Giuseppe Pitrè, del 1900, troviamo un cenno agli emigrati:
«[...] le offerte si son chiuse con un gonfalone mandato dai marinesi emigrati in America, memori dei benefici ottenuti dal protettore, e della patria, che essi, costretti ad abbandonarla, non dimenticano mai» (1978b:135).
L'origine mitica
Pitrè non parla però dell’origine mitica della cunnutta, a cui invece sembra riferirsi il racconto di un confrate: Salvatore Tuzzolino:
«Tanti anni fa, in periodo di carestia, non potendosi fare la festa per mancanza di fondi, si era deciso di non fare né festa né la processione, perché quell’anno era venuto non bene, anzi malissimo e non riuscivano a comprare neanche i cosiddetti ceri che si portano durante la processione». Ma, come in un miracolo, da un paese lontano «mi sembra che sia un paese del trapanese, è arrivata una filastrocca di muli carichi di frumento mandati da uno che non so, per una promessa fatta a san Ciro. E si è potuto, con questi muli caricati di frumento, fare la festa di san Ciro di quell’anno».

VIII. LA FESTA DI AGOSTO. SANTU CIRU RICCU

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.2. La festa di agosto
I festeggiamenti in onore del patrono, san Ciro, ricorrono in due distinti periodi dell’anno. Come abbiamo visto, il 31 gennaio è il giorno della festa detta di santu Ciru puvureddu (san Ciro povero), giorno in cui la Chiesa ricorda il martirio del santo, avvenuto nell’anno 303. La penultima di agosto si festeggia, invece, santu Ciru riccu (san Ciro ricco), ricorrenza in cui la parrocchia commemora la donazione della reliquia da parte della Santa sede.
Secondo quanto riferisce Cristaldo Mariano (pseudonimo del parroco Natale Raineri) «la reliquia giunse in paese il 20 agosto 1665, penultima domenica di quel mese» (1961: 199). Ciò sarebbe attestato dalla già citata «pergamena romana», cui fanno riferimento sia i sacerdoti marinesi che i documenti di ricognizione del teschio del 1936.
Nel volume Feste patronali in Sicilia, Giuseppe Pitrè, in una nota, richiama l’attenzione del lettore su un articolo apparso a puntate sul Corriere dell’Isola, tra il 21 e il 23 settembre 1894. L’autore è Francesco Sanfilippo, maestro elementare e locale corrispondente di quel giornale alla fine dell’Ottocento (Fiume 1986).
La festa nel 1894
Sanfilippo fa una dettagliata cronaca della festa del 1894, soffermandosi, in particolare, sulla descrizione della dimostranza. Nella parte introduttiva della esposizione, il maestro riferisce che la festa venne istituita nel mese di gennaio:
«[...] si istituì la festa il 31 gennaro, giorno che la prima volta entrò solennemente la reliquia in paese. Ma per beneplacido dei marinesi, una bolla arcivescovile permise loro di trasportare in trionfo ed il tripudio nel mese d’agosto; mese molto comodo ai campagnuoli che hanno terminato il raccolto» (Sanfilippo 1894).
Non è da escludere che le cose possano essere andate effettivamente come spiega Sanfilippo, e non come invece riferiscono le fonti ufficiali. Infatti, come abbiamo visto prima, la diffusione in paese del nome Ciro sarebbe dovuta iniziare dopo l’arrivo della reliquia, e non due mesi prima. Inoltre, è interessante notare come la festa di san Ciro d’agosto coincida effettivamente con la chiusura di un ciclo produttivo della campagna e l’inizio di uno nuovo.
Ancora oggi, i pochi contadini che hanno terreni in affitto entro la fine di agosto saldano i conti con i proprietari. Mentre i pastori, a fine mese, riconsegnano le terre avute per il pascolo. Agosto, in poche parole, è un mese molto comodo per “saldare i conti” sia coi proprietari delle terre che col santo patrono.
Ciò avviene con la cunnutta, processione in cui i devoti consegnano frumento e denaro al comitato organizzatore dei festeggiamenti, «in segno di riconoscenza al santo per la buona annata» e per garantirsi un buon raccolto anche in quella successiva.
Festa agraria
L’origine della festa patronale di san Ciro, come avviene per altri momenti festivi in Sicilia, aldilà della rifunzionalizzazione cristiana, può essere senz’altro trovata negli antichi riti agrari di propiziazione. Le feste contadine tradizionali hanno sempre avuto, fin da epoca precristiana, un carattere agrario. Erano riti intesi a propiziare l'ordinata scansione dei cicli stagionali, da cui dipendeva il buono o il cattivo destino dei raccolti (Buttitta 1996). Tutto era sottoposto rigidamente ai ritmi naturali: dalla loro annuale regolare ripetizione dipendeva la vita della comunità. Ciascuna festa doveva dunque essere celebrata in un tempo preciso, nel momento in cui in dipendenza dei mutamenti stagionali si passava da un'attività all'altra. L'aratura, la semina, la potatura, la raccolta dei diversi prodotti della terra venivano così a iscriversi in una dimensione religiosa, e i riti a questa connessi assolvevano precipuamente alla funzione di sacralizzare il tempo e lo spazio» (ibidem).
La festa di Marineo è suddivisa in due momenti dell’annata agraria: nel mese di gennaio assistiamo ad una ricorrenza «povera» di spese, ma molto ricca di preghiere (con nove giorni intensi di appuntamenti: rosari, messe, pellegrinaggi) in un momento in cui «la natura deve esprimere tutta la sua energia per produrre» (Giallombardo 1990: 117). A fine agosto, invece, «si recano offerte di grano per garantirsi la buona stagione e la salute del bestiame». (ivi: 118) Infatti, a fine estate «la terra deve prepararsi ai rigori dell’inverno, proteggendo dentro di sé il seme che assicurerà la nuova vegetazione» (ivi: 117).
Oggi questo rapporto tra comunità e natura non è più dominante, come è avvenuto fino alla fine degli anni Cinquanta, quando il paese viveva ancora di agricoltura. In questi casi, a livello collettivo, «la festa si rifunzionalizza a significare un’esigenza di rassicurazione che si origina dalla perdita di coesione delle società tradizionali e dalla conseguente crisi di identità culturale» (ivi: 119).
La festa che si celebra in agosto è molto ricca di valenze folcloristiche e sociali ed è carica di accenti fortemente campanilistici, già individuati da Giuseppe Pitré nella rivalità tra marinesi e misilmeresi e nelle gelosie tra l’africano Ciro e il trentino Giusto.
Gli emigrati
Quello d’agosto è un appuntamento che riesce ad attrarre tantissimi visitatori. In diverse occasioni sono state accolte delegazioni provenienti dagli Stati Uniti. Con il ritorno degli emigrati in paese, che approfittano delle ferie estive per concedersi un poco di riposo con la famiglia, questa festa assume una fondamentale funzione aggregativa e di autoidentificazione della comunità. Gli emigrati «nella festa del proprio paese verificano la persistenza della loro comunità e tornando a riviverla la riconfermano a se stessi» (Buttitta 1996: 265).
Uno degli appuntamenti fissi del calendario festivo è il ricevimento in consiglio comunale degli emigrati presenti in paese nei giorni di festa. Si tratta di una seduta straordinaria dell’assemblea civica, nel corso della quale viene annualmente rinnovato il patto di amicizia tra gli amministratori della terra natia e i fratelli che vivono all’estero. In questa occasione avviene uno scambio di doni (targhe ricordo, oggetti artigianali e simboli nazionali) e si programmano iniziative in comune.
Dal 19 agosto al 12 settembre 2005, nei locali del castello, si è svolta una mostra fotografica, dal titolo “The other Sicily”, sulla festa di san Ciro, negli anni Quaranta, a New York. L’autore è Dominic Quartuccio, fotoreporter italo-americano in pensione, che ha un lungo carnet di premi, viaggi per il mondo e immagini scattate per il New York Times. Di questo parleremo più avanti, quando tratteremo della festa negli Stati Uniti d’America.
Le trasformazioni
Quella di san Ciro è una festa molto vitale che segue i ritmi, la storia e l’evoluzione culturale della comunità. Prova evidente di ciò ne è la dimostranza, spettacolo teatrale itinerante della vita del santo, il cui testo, nel tempo, ha seguito una lenta ma continua trasformazione che, a detta dei marinesi, rende la sceneggiatura sempre viva e attuale. Tutti i tentativi per impedire o alterare la sua naturale metamorfosi sono andati a vuoto.
Un esempio di questa particolarità può essere visto in ciò che è avvenuto negli anni sessanta, quando il parroco Natale Raineri, di colpo, trasformò radicalmente la manifestazione, limitandola, però, ad una fruizione più partecipata ed impegnativa con evidente destinazione teatrale, da rappresentare sul palco. La profonda operazione di “restauro” non riuscì al sacerdote. Gli attori, già dall’edizione successiva, vollero tornare a recitare nelle strade e nelle piazze, con i testi della tradizione, poiché:
«[...] il cosiddetto popolo non accetta passivamente e acriticamente quanto discende “dall’alto”. [...] Quanto è percepito come ancora funzionale a modi di vita, a sistemi di attese, resta; altro cambia; altro si perde, semplicemente perché non ha più ragion d’essere rispetto a mutati regimi di esistenza» (Guggino 2004: 380).
Qualcosa di simile, negli anni Novanta, avvenne anche con la cunnutta, quando la congregazione, per ragioni di fruizione turistica, aveva deciso di spostare l’orario della processione nel pomeriggio. Anche i questo caso, i devoti fecero di testa propria, sfilando come al solito la domenica mattina, alle 10: orario ritenuto più comodo, dovendo anche occuparsi della sistemazione degli animali nelle stalle in un giorno di festa.
Tornando alla dimostranza, anche l’interpretazione del personaggio di san Ciro, nel corso dei decenni, ha subito delle trasformazioni al passo coi tempi. Una persona che ha rivalutato e dato un volto nuovo alla dimostranza è stato il regista Accursio Di Leo. Lui portava delle innovazioni, che chiamava “contaminatio”, per attualizzarla.
Nel corso degli anni, nella scena IX degli infermi, san Ciro si è presentato al pubblico ora come il medico dei mali dello spirito (anni Settanta), ora come il dottore del drogato (anni Ottanta), ora come l’estremo rimedio ai mali della guerra (anni Novanta) o all’odio tra i popoli (Duemila).
E nell’Ottocento?
«Eccoci san Ciro già uomo completo, laureato medico che prodiga le cure agli ammalati poveri e fa prodigi. Egli come tutti i taumaturghi veste con zimmarra, cappello a cilindro e canna d’America col pomo d’argento. (Badate: in quell’epoca del martirio, cioè al terzo secolo dell’era nostra, in Alessandria d’Egitto questa moda dei cappelli a cilindro c’era; forse fu modellata su qualche geroglifico. Ed è per questo che si suol dire: cose d’Egitto)» (Sanfilippo 1894).
Altro esempio emblematico del mutamento del costume è quello della partecipazione delle donne alla manifestazione. Presenti nelle descrizioni di fine Ottocento, le donne sono invece assenti in tutte le fotografie della manifestazione dei primi anni del Novecento fino agli anni Cinquanta.
L’organizzazione di questo momento festivo comporta delle difficoltà economiche non indifferenti. La dimostranza, “colossal” con oltre duecento tra attori volontari, comparse e assistenti di scena, viene organizzata, per questo motivo, con cadenza pluriennale. Pure per ragioni economiche, alla fine dell’Ottocento gli organizzatori alternavano la dimostranza con il carro trionfale. Un anno si rappresentava la prima, un anno andava in scena il secondo (Pitré 1978b).
Anche la cunnutta, processione di devoti che portano frumento al santo, ha subito una lenta metamorfosi. Mancando il retroterra sociale ed economico in cui le feste contadine affondano le radici si è assistito a necessarie trasformazioni, nella forma e, in parte, anche nello spirito.
Così, il mulo viene inesorabilmente sostituito con l’automobile e con i mezzi agricoli; il frumento con il denaro. In compenso, negli ultimi anni, si è assistito ad un ritorno del cavallo: non più compagno di lavoro dell’uomo, ma di svago; non più segno dell’umile condizione del contadino, ma della persona benestante.
Sono molti i fedeli che oggi prendono un cavallo in un maneggio e comprano il frumento al mulino per poter “sfilare” alla cunnutta.
Insomma, la festa continua a radicarsi nei gangli vitali del contesto sociale ed economico in cui vive. Ma le tradizioni, nonostante i cambiamenti fisiologici, continuano a resistere.
Quattro giorni di festa
Le celebrazioni durano quattro giorni. Si aprono il venerdì precedente la penultima domenica di agosto, e si concludono il lunedì successivo. Ognuno di questi giorni è caratterizzato da particolari manifestazioni religiose e civili.
L’organizzazione è curata dalla confraternita, che in quest’occasione, grazie alla presenza di turisti e al ritorno degli emigrati, riesce ad ottenere la collaborazione del Comune e di altri enti quali la Provincia o la Regione, i quali spesso offrono spettacoli folk o altri servizi.
I festeggiamenti hanno ufficialmente inizio il venerdì sera, con la celebrazione, intorno alle diciotto, della messa nella cappella di san Ciro, situata all’ingresso del paese.
Già alcuni giorni prima i devoti, hanno iniziato a fare i viaggi a san Ciro, pellegrinaggi spontanei che precedono entrambe le feste, quella di agosto e quella di gennaio.
Dopo la messa di apertura, si svolge, per le vie del paese, «lu giru di li tammurinara», che annunciano l’inizio della festa.
Il suono del tamburo accompagna sia i momenti festivi invernali che estivi. L’unica differenza consiste nel numero dei suonatori: nel primo caso è sufficiente uno, nel secondo ne vengono contattati almeno quattro.
Per tutto il periodo festivo, ogni giorno si può assistere a diverse gare sportive (tornei di calcio, tennis, pallavolo) e di abilità (gimcane, cacce al tesoro, gare tra quartieri) organizzate in collaborazione con le associazioni locali.
Per le realtà associative, la festa costituisce una “vetrina”, un’occasione per fare conoscere le attività svolte nel corso dell’anno ai concittadini, ma anche per farsi notare dagli amministratori pubblici, che le sostengono con contributi economici.
Fino agli anni Settanta si offriva, invece, uno spettacolo più genuino con le corse con i sacchi o il palo della cuccagna.
I cavalli
La corsa dei cavalli, descritta anche nel documento della festa del 1746 (Deputati della solennità 1746), consisteva, sostanzialmente, nel far correre i cavalli lungo la strada principale del paese, il corso dei Mille, chiamato per questo motivo “la strata di la cursa”.
Da una ventina d’anni a questa parte, per motivi di ordine pubblico, la Prefettura di Palermo non ha più concesso l’autorizzazione alle gare.
In mancanza delle corse, negli ultimi anni, gli allevatori di cavalli hanno chiesto e ottenuto di organizzare delle mostre equine e delle sfilate, per attirare l’attenzione della cittadinanza sulla realtà zootecnica.
Anche gli artigiani hanno cercato di sfruttare l’occasione festiva per pubblicizzare le loro attività. La Mostra dei prodotti di artigianato è stata utilizzata dai sindacati degli artigiani per veicolare una nuova immagine del paese, soprattutto a livello politico regionale: non più comune ad economia agricola e pastorale, bensì artigianale.
Nel già citato documento sulla festa del 1746 «si dà avviso che la Fiera è franca al solito giorni otto prima e quattro dopo». Per l’occasione, infatti, veniva abolita la tassa del dazio.
L’aria festiva, in questi giorni, si avverte fin dalle prime ore del mattino: ogni giorno alle sette vi è l’alborata, ossia lo scoppio di mortai, che ricorda ai marinesi che è un giorno speciale.
Per tutta la giornata, nella chiesa Madre si celebrano messe come per i giorni festivi.
Saltuariamente, il sabato viene celebrata una messa dedicata ai malati. Si tratta di una funzione particolare, poiché oltre alla tradizionale celebrazione, si può assistere all’unzione degli infermi. In passato, «la confraternita si faceva carico, come atto di volontariato, di andare a prendere gli infermi a casa, per farli partecipare alla messa. Anche perché ci affidiamo a san Ciro soprattutto per la cura del nostro corpo, per avere la salute».
L'olio di san Ciro
Oggi questo rituale si pratica solo in chiesa. Ma fino a qualche tempo fa esisteva l’olio di san Ciro, posto in apposite ampolle e portato nelle case dei fedeli dai sacerdoti o dai confrati. In contrada Serena esisteva, inoltre, un ulivo secolare, chiamato dai contadini di Marineo «la chianca di santu Ciru, il cui olio serviva per riempire le ampolle e per alimentare la lampada votiva in chiesa» (Mariano 1964).
Queste usanze sono state accantonate dalle autorità ecclesiastiche, poiché ritenute troppo cariche di valenze magiche e superstiziose. Adesso, l’olio di san Ciro non viene più preparato. Mentre la lampada votiva viene alimentata elettricamente.
Il sabato pomeriggio si entra nel vivo delle manifestazioni, con la dimostranza, rappresentazione in costumi d’epoca della vita del santo, che viene organizzata, in genere, ogni tre o quattro anni.
È, comunque, la domenica il giorno più ricco di celebrazioni religiose.
In mattinata, intorno alle dieci, si svolge la prima processione, la cunnutta, ossia il trasporto dei doni votivi al santo.
Oltre alle consuete messe festive, si svolge una celebrazione solenne con panegirico a mezzogiorno, che vede la presenza delle autorità. Seduti nei banchi riservati nelle prime file troviamo, in ordine, il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, il comandante dei vigili urbani, il superiore e i confrati della confraternita di san Ciro, un gruppo di assessori e consiglieri comunali. «Nelle feste la partecipazione delle massime autorità tanto religiose quanto civili è sempre stata ritenuta indispensabile. La loro presenza, in quanto vertice di fatto dell’intero corpo sociale, costituiva di fatto la garanzia nel momento della rifondazione del tempo, della ricostituzione della società stessa» (Buttitta 1996: 263).
All’ingresso della chiesa viene allestito lu tavulinu: un tavolo con una statuetta di san Ciro in argento e lu cannistru, ossia il cesto dove i devoti consegnano le offerte: in denaro o ex-voto.
All’uscita dalla chiesa, nelle pasticcerie e nei bar, tra le delizie locali che abbondano nei banconi, è possibile acquistare anche il “medaglione di san Ciro”, a base di pasta di mandorle e zucchero.
L’altra celebrazione solenne è quella serale, alle diciannove, officiata all’aperto dal cardinale arcivescovo di Palermo o da un suo vicario, a cui partecipa tutta la comunità.
Dopo la messa vespertina, alle ventuno ha inizio la processione della reliquia del santo. Il percorso e l’ordine processionale è lo stesso di gennaio.
Il lunedì si concludono i festeggiamenti. Alle dodici, nella chiesa Madre, viene celebrata una messa che vede la partecipazione dei sacerdoti marinesi. Questa, soprattutto per i religiosi che vivono fuori paese, è un’occasione per ritornare a casa e incontrare i confratelli. Dopo la messa, i sacerdoti pranzano assieme al parroco per avere un momento di comunione, non solo religiosa, ma anche un rapporto con la comunità locale.
Nel corso della mattinata e nel pomeriggio vengono organizzate manifestazioni di intrattenimento (gare automobilistiche, corse di biciclette o podistiche, sfilate di cavalli, esibizioni di gruppi folk).
I festeggiamenti si chiudono a tarda sera con un concerto musicale. Il nome di grido dell’artista, quando le disponibilità economiche lo consentono, serve a richiamare in paese spettatori dai paesi vicini.
L'economia
Le giornate di festa costituiscono per le attività commerciali una buona fonte di guadagni. Sono i bar, le paninerie, le pizzerie a lavorare più di tutti e fino all’alba. Un incremento degli affari si registra anche per altri settori del commercio: l’abbigliamento e gli alimentari.
L’occasione festiva è uno dei momenti dell’anno in cui viene rinnovato il guardaroba. Mentre a tavola si festeggia con inviti di parenti e abbondanza di portate. La ricorrenza festiva è, infatti, anche l’occasione per sanare contrasti familiari (Buttitta 1996: 263).
I bar, le macellerie e gli esercizi commerciali che hanno fatto buoni affari nei gironi di festa saranno particolarmente generosi con il comitato organizzatore al momento della questua. L’offerta in denaro dei devoti e delle attività commerciali è libera.
A questi operatori commerciali se ne aggiungono altri che montano le bancarelle nei giorni di festa: non mancano mai i tradizionali venditori di calia e simenza, zucchero filato, torrone, palloncini e le giostre. La novità di oggi è la presenza di senegalesi che propongono i loro oggetti etnici e di cinesi con prodotti a buon mercato. A loro non viene chiesto alcun contributo per le spese della festa, pagano soltanto l’occupazione del suolo pubblico al Comune.
A chiudere la festa è uno spettacolo di fuochi pirotecnici che, assieme al concerto musicale richiedono una buona parte delle risorse a disposizione della confraternita.

VII. MARINEO E LA FESTA DI SAN CIRO DI GENNAIO. LA NOVENA, I VIAGGI E LE PREGHIERE

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
III.1. La festa di gennaio: santu Ciru puvureddu
La festa del 31 gennaio è quella chiamata dalla gente del luogo di «santu Ciru puvureddu». Tale denominazione è spiegata dai fedeli dal fatto che per tutto il periodo festivo si svolgono le sole manifestazioni religiose e sono assenti gli eccessi di agosto: spettacoli musicali e giochi pirotecnici in primo luogo. Pur trattandosi di una festa povera, i preparativi sono, di fatto, più lunghi di quella estiva ed hanno inizio il 22 gennaio, quando la reliquia del santo viene scesa dalla nicchia che la custodisce. Il reliquiario, infatti, è conservato per tutto l’anno nell’altare dedicato al santo, posto sulla navata sinistra della chiesa Madre.
La preparazione
La preparazione della reliquia per questo speciale periodo si svolge esattamente nove giorni prima del 31 gennaio. L’urna viene spostata dalla cappella di san Ciro per essere posta su un’impalcatura in ferro alta circa due metri e ricoperta con drappi ornamentali e composizioni floreali, di colore prevalentemente rosso, per simboleggiare il martirio. Della preparazione di questa struttura e della sistemazione della reliquia in una nuova collocazione si occupano gli iscritti alla congregazione di san Ciro. In questa occasione, l’urna d’argento viene pulita dai confratelli con panni bianchi. E non mancano mai i fedeli che, assistendo alle frenetiche attività di preparazione della festa, passano sul vetro del reliquiario un fazzoletto, che poi baciano con devozione e rimettono in tasca come fosse un prezioso cimelio.
Il trono viene collocato al centro della chiesa, e qui rimane esposto al pubblico culto per tutto il periodo della novena, cioè fino alla sera del 31, quando si chiude la festa.
La novena
La novena è così strutturata. Ogni sera viene recitato il rosario di san Ciro. Si tratta di una serie di preghiere rivolte al santo. Esistono sia un rosario in italiano che altri dialettali. Questi ultimi, in passato venivano recitati nelle case. Oggi solo poche persone li ricordano.
Alle diciannove si celebra la messa: durante l’omelia, i sacerdoti che si alternano nel corso delle serate, commentano le letture del giorno, accennando alla vita e alle opere del santo. I sacerdoti chiamati per l’occasione si alternano: il predicatore della novena, di solito, è un padre secolare o un francescano. Il 30 gennaio, vigilia della festa, dopo il consueto rosario, vengono celebrati i vespri solenni in onore del santo.
Il 31 gennaio
Il 31 gennaio i festeggiamenti iniziano fin dalle sette del mattino con l’alborata, ossia lo scoppio di una serie di mortai. Per tutto il giorno, le strade del paese sono allietate dal suono del tamburo e della banda cittadina. In questa giornata si celebrano messe, con orari festivi, dal primo mattino. È comunque la celebrazione solenne della messa di mezzogiorno ad attrarre, più di ogni altra, la presenza di numerosi fedeli, confratelli e autorità civili e militari che, come nella festa di agosto, prendono posto nei posti riservati nei primi banchi. Alcuni confrati, con l’abitino rosso, trovano invece posto all’ingresso della chiesa, dove viene allestito lu tavulinu per le offerte dei fedeli.
Dopo la messa vespertina, ha inizio la processione che, nel suo svolgimento è identica a quella di agosto. Quando il 31 gennaio le condizioni atmosferiche non consentono lo svolgimento della processione, a causa della forte pioggia o della neve, questa viene rinviata alla prima domenica utile. Il santo rimane sistemato al centro della chiesa fino al giorno della processione.
III.2. I viaggi e le preghiere
Una delle caratteristiche più rilevanti di questa festa è rappresentata da una manifestazione di fede che sfugge all’occhio dell’osservatore più distratto. Si tratta dei cosiddetti viaggi a santu Ciru: un pellegrinaggio spontaneo che numerosi fedeli, a piccoli gruppi, formati in genere da parenti, vicini di casa e conoscenti, fanno qualche sera prima del 31 gennaio o della penultima domenica d’agosto.
Il viaggiu, intrapreso prevalentemente da donne, alcune delle quali a piedi scalzi, consiste nel percorrere il tragitto della processione di san Ciro con la coroncina tra le mani, pregando. Il viaggio si svolge sempre di sera.
Questo pellegrinaggio può essere fatto almeno per due motivi. Il primo è in segno penitenziale, per ringraziare per l’avvenuto miracolo, sia per chiedere una grazia particolare al santo. In tal senso «ha carattere di ex-voto» (Buttitta 1983: 12).
La seconda ragione riguarda, invece, la presenza alla processione di san Ciro: quando una donna non può prendervi parte il giorno stabilito, offre al santo il viaggio in sostituzione.
Negli ultimi anni, oltre alla presenza discreta, quasi invisibile, delle donne che fanno i viaggi spontanei, si è assistito anche alla organizzazione, da parte del parroco, di un pellegrinaggio da lui guidato, al quale partecipano numerosi gli assidui frequentatori della chiesa parrocchiale, anche uomini.
Durante il percorso, che inizia davanti alla chiesa Madre e si snoda lungo il percorso tradizionale della processione (corso dei Mille, piazza Castello, via Garibaldi, piazza sant’Anna, via Umberto I, via Patti, via san Michele, corso dei Mille), si recita il rosario di san Ciro.
Il rosario
Una voce dice:
Salve, o martire San Ciro, / io ti venero e ti ammiro;
tu mi ottieni dal Signore, / il celeste e santo amore.
E in coro si risponde:
Ti lodiamo e supplichiamo, /con fervore in tutte l'ore,
la salute e la virtù, / tu ci ottieni da Gesù.
La preghiera, nella versione dialettale cantata diventa:
Diu vi sarvi Santu Ciru, / tuttu chinu di carità;
aiutatinni e assistitinni, / nni li nostri nicissità.
O gran medicu beneficu, / pi virtù di lu Spiritu Santu
grazia vulemu, / di vui Patri d'Amuri.
O anche:
Santu Ciru virgineddu, / tuttu puru e tuttu beddu,
priati a lu Signuri / pi nuatri piccaturi.
E priamulu tutti l’uri / lu nostru Santu Prutitturi,
oggi e sempri n’cumpagnia / cu Gesù Giuseppi e Maria.
La lode viene intervallata dal Gloria:
Gloria al Padre ed al Figlio / e allo Spirito Superno;
quale fu sempre in eterno / ed ancor sempre sarà.
Lodata sempre sia, / la gran Vergine Maria.
Mille e mille eccelse lodi / al gran Martire del Signore;
Ciro medico eremita / ci guarisce e il ciel ci addita.
La salute ed il vigore / per il corpo e per la mente,
Tu ci ottieni dal Signore / Gesù Cristo onnipotente.
Ci soccorri in tutte l'ore / nostro grande protettore.
È una ripetizione continua delle poste del rosario. E si dicono cinque poste del rosario ripetute, come per il rosario normale.
Scopo del cammino
Al termine del viaggiu, le donne sostano alcuni minuti davanti al portone della matrice, per concludere le preghiere e per chiedere l’intercessione del santo per i bisogni delle loro famiglie. Dunque, questo pellegrinaggio è un atto volontario con il quale il fedele si reca in religiosità di spirito fino ad una meta: il luogo santo. Alla fine del viaggio il pellegrino chiede che venga esaudito un desiderio personale, ma anche un approfondimento della propria vita personale. Ciò è possibile grazie alla purificazione dell’animo attuata lungo il cammino comune fatto in preghiera, penitenza e meditazione.

VI. LA RAPPRESENTAZIONE ICONOGRAFICA DI SAN CIRO: IL PARADISO, IL VESUVIO, LA ROCCA

Libro a puntate (testi di Nuccio Benanti)
II.1. Le immagini e la devozione
A Marineo la più antica riproduzione iconografica di san Ciro risale alla fine del Seicento (Trentacosti 1998: 83). Si tratta di una tela ad olio, di autore sconosciuto, custodita nella chiesa Madre. Questa è una delle immagini più usate nella stampa dei santini.
Martire in gloria
Il dipinto raffigura san Ciro in gloria, avvolto da una tunica azzurra e da un mantello rosso. Il santo si erge su una nuvola, ed è circondato da putti alati che sorreggono un vangelo, mentre con la mano sinistra tiene la palma del martirio.
Come abbiamo visto nell'Apocalisse di san Giovanni i santi «stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario» (Ap 7, 14-15).
In terra
Nell’immaginario popolare, il santo è invece rappresentato in maniera diversa:
«[...] il concetto di santità non conserva alcunché di metafisico o di ascetico. Il santo non sta nella gloria delle nuvole, non è “assenza” austera e contemplativa ma “presenza” viva, materica e concreta [...] Più prossimo alla terra e alle cose umane per il fatto stesso di essere stato mortale» (Cusumano 1988: 6).
In alcune stampe d’epoca, tuttora in circolazione anche grazie alle recenti ristampe a cura della confraternita, san Ciro è raffigurato con i piedi a terra, mentre tutt’intorno sono rappresentati vari elementi del paesaggio di Marineo, riconoscibile dalla presenza della Rocca che sovrasta le case. Il santo è inoltre rappresentato nel contesto di un evento miracoloso: vale a dire in mezzo ai malati, individuabili dalla presenza delle stampelle.
Anche qui notiamo la palma e il libro quali elementi simbolici di martirio e fede. Ma in questo caso, ci troviamo di fronte una figura più familiare, più confidenziale, più attenta alle richieste dei fedeli.
Il Vesuvio
Rispetto a questi elementi, altre stampe distribuite a partire dai primi del Novecento, presentano delle differenze sostanziali: al posto della Rocca di Marineo notiamo un vulcano fumante, mentre il santo non indossa tunica e mantello, ma un saio marrone.
Queste diversità sono riconducibili all’uso di “santini” di provenienza napoletana, dove san Ciro è particolarmente venerato nella chiesa del Gesù Nuovo. Oltre alla presenza dell’inconfondibile Vesuvio, notiamo come il santo sia rappresentato con un abito da monaco e in età molto più avanzata rispetto a quello di Marineo. Infine, gli elementi simbolici presenti sono, questa volta, la croce e un ramoscello d’ulivo.
Il saio da monaco eremita
Quella di Napoli è una rappresentazione iconografica che non si discosta molto dall’immagine che troviamo nel frontespizio della biografia del martire scritta dal gesuita Francesco Paternò (1707), dove il santo indossa, appunto, un saio da monaco ed è intento a pregare all’ombra di un ulivo secolare, poiché:
«Portatosi quindi egli in Arabia, subito cambiò veste, modo di vivere, e fattasi rasa la testa si vestì da monaco ed intraprese una vita sublime ed elevata» (Prevete 1961, p.43).
Medico bizantino
A Palermo e Monreale, inoltre, esistono delle chiese costruite nel periodo normanno in cui i mosaicisti bizantini hanno raffigurato nelle pareti san Ciro: la Cappella Palatina, la chiesa della Martorana e il duomo di Monreale. La presenza di san Ciro medico nel rito bizantino è da attribuire alla larga diffusione che ebbe il culto del santo alessandrino in Oriente. In queste tre chiese il santo è raffigurato con la cassetta delle medicine e il bisturi in mano, mentre indossa un abito civile del XII secolo. I vespri in onore dei santi Ciro e Giovanni, nell’Ufficiatura del rito bizantino, iniziano queste parole:
Atleti nobilissimi, / * medici inviati da Dio, / * illustri Ciro e Giovanni: / * come avete annientato l'atea alterigia dei tiranni, / * così troncate i tirannici sviamenti della mia mente, / * sanate le passioni della mia anima /* e liberatemi dalla futura condanna, / * supplicando il Redentore.
Medico, eremita, martire
Non essendo certa l’immagine dei primi martiri, questa è stata rielaborata risentendo molto degli influssi culturali in cui è inserita (De Padova 2003; Cusumano 1988).
San Ciro medico eremita martire, è stato rappresentato, quindi, in culture diverse in modo differente: medico nei mosaici bizantini; eremita nella rappresentazione dei gesuiti di Napoli; martire a Marineo, dove i fedeli iniziano il rosario dicendo: «Salve, o martire San Ciro [...]».
Inoltre, come abbiamo visto, vi è una differenza tra il livello istituzionale e quello popolare: diversità riscontrabile anche nelle tecniche, nei materiali usati o nelle orazioni stampate dietro la stessa immagine.
Possiamo, infine, dire che l’elemento caratterizzante del santino popolare è una forte componente narrativa, a differenza del santino colto dove l’immagine tende all’evidenziazione del contenuto concettuale. Per la Chiesa, infatti, le immagini hanno lo scopo di evocare il soggetto. E il metodo migliore è descriverlo nel modo più semplice e senza artifici che potrebbero sviare l’osservatore su questioni marginali.
Non solo la rappresentazione è differente, ma lo stesso rapporto con le immagini sacre assume connotati diversi.
La devozione popolare
La devozione popolare, spesso, si rivolge a certi santi o a certe immagini percorrendo vie del tutto indipendenti da quelle seguite dal culto ufficiale. Per il popolo le immaginette rappresentano il tramite tra il fedele e il santo. Alla santina vengono addirittura attribuiti poteri miracolosi: si pensi all'abitino di stoffa indossato dai malati.
L’immagine di san Ciro viene così portata in ospedale, baciata e poggiata sulla parte malata, perché può guarire da una infermità. La santina può anche rappresentare la presenza del santo nel luogo in cui è posta, in casa o al lavoro: si pensi alle donne che le sistemano nella culla dei bambini o all’abitudine degli artigiani di incollarle sul banco di lavoro. Sono tantissimi, inoltre, i devoti che le conservano nei portafogli. Anche nei cassetti delle case abbondano le immaginette sacre. Vi è anche la credenza popolare secondo la quale non è buono liberarsene, poiché il disfarsene significa annullare la protezione assicurata al devoto, se non addirittura chiamarsi contro sventure (De Padova 2003).
Le immagini soddisfano il bisogno di materializzazione del sacro, dando volto e corpo a personaggi e luoghi di cui si è sentito solo parlare, privatizzando un soggetto di culto collettivo.
Spesso accade che magia, superstizione e religione si confondano dando luogo ad una particolare dimensione religiosa, diversa nei diversi contesti culturali.
In campo popolare le immagini occupano, come gli stessi santi, una posizione di confine: questa volta tra il modello proposto dalla cultura ufficiale e quello in uso presso il popolo (Ibidem).